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Le ricorrenze, di solito, sono infarcite di retorica e l’ideologia, nella celebrazione del 25 aprile, rischia ancora una volta di prendere il sopravvento, provocando da un lato un’alzata di bandiere, dall’altra una levata di scudi. Partiti in contesa.



Quando una “soffiata” rovinava la vita

Succede quando la Storia non si è ancora completamente sedimentata e sono rimaste in sospensione diverse particelle colorate: in tal caso, tutto pare ancora annebbiato, poco chiaro, e, in mancanza di serenità, prevalgono l’incomprensione, il fraintendimento, lo scontro sull’incontro. Per qualcuno il 25 aprile segna la fine del grande sogno imperiale, per altri il tradimento di un processo rivoluzionario che traeva spunto dalla Resistenza. Per tutti, però, è stato soprattutto la fine di una guerra lunga e disastrosa, combattuta dapprima sui vari fronti dello scacchiere mondiale, dal Balcani all’Africa, e poi dovunque, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, quando il conflitto – trasformatosi in guerra civile – ha stravolto ogni convenzione e il nemico improvvisamente non era più dall’altra parte, ma poteva stare dovunque, nel medesimo villaggio, persino in contrada o nella casa vicina. E s’gh’ìa pura de töt – ricordano ancora oggi gli anziani – perché bastava una “soffiata” per rovinare loro la vita, magari solamente perché avevano dato ospitalità ad un fuggiasco.

I fuggitivi del campo di prigionia della Grumellina

Eccoli, i fuggitivi dal campo di prigionia della Grumellina, dopo l’armistizio dell’otto settembre, risalire i versanti delle nostre valli, diretti in Svizzera, ottenendo dalla popolazione ristoro e protezione. Abbiamo raccolto diverse testimonianze, storie ritrovate grazie ai protagonisti di vicende difficili, cresciuti in una terra di libertà. Vicende come quella di Eurosia Frosio di Mazzoleni, che ha rischiato la vita e quella dei suoi familiari per assicurare protezione a una famiglia di ebrei; o di Battista Botticchio, che a Cerete, dalla stalla dei Carnài, dove si trovava in montagna con le vacche, ha sentito suonare a lungo le sirene dell’Ilva il 25 aprile: annunciavano la fine della guerra! O, ancora, di Don Piero Arrigoni, che nel Chronicon della parrocchia di Morterone annota il passaggio di molti gruppi di disertori e fuggiaschi; o di Francesco Cassotti, quando, nei mesi successivi alla Liberazione, rientra a Sant’Omobono col fazzoletto rosso al collo, il berretto con la stella rossa in fronte e il parabellum a tracolla: faceva il famèi in un’azienda vitivinicola di Cassine, un paese nella provincia di Acqui, quando, nel 1944, si è dovuto rifugiare in montagna, assieme con i partigiani, inquadrato nella Brigata Viganò, una formazione garibaldina. Leone era il suo nome di battaglia, ma quando riferì a suo padre, subito dopo la guerra, l’intenzione di entrare nella polizia partigiana, si sentì dare dol pelandrù: così, nel 1947, dopo la Smobilitazione, eccolo emigrante in Svizzera, assieme con il papà muratore, a prendersi del “Macarunì” a La Chaux de Fonds e a Delemont.

Tessera di riconoscimento di Franco Cassotti, partigiano della Divisione Viganò.

L’ex voto alla Cornabusa

Vicende personali di una guerra diffusa, giunta persino nelle molte stalle dei nostri paesi dove, per alcuni anni, sono stati accolti e nascosti centinaia di prigionieri e ricercati, disertori e fuggiaschi, biànch e nìgher; una guerra combattuta senza clamore da tanti montanari, come mio nonno, che prestavano loro soccorso, i ga dàa da mangià, li avvisavano in caso di pericolo imminente. Perché, quassù, le famiglie hanno rappresentato tanti focolai di liberi pensatori. Negli Archivi della Memoria e dell’Identità del Centro Studi Valle Imagna sono raccolte e conservate decine di tali testimonianze. Una guerra combattuta anche passivamente dai molti che sapevano e che non hanno parlato. Un gruppo di fuggiaschi, poi, dopo il 25 Aprile, si è radunato alla Cornabusa dove ha deposto un ex voto alla Madonna, ritenendosi “miracolati” per essere sopravvissuti in quei difficili frangenti. Una fotografia ha immortalato per sempre tale gesto. Provenienti da mondi e culture diversi, ma tutti coinvolti nella tragica esperienza della guerra.

Il coraggio della gente di montagna

Una guerra combattuta non da pochi o singoli individui, protagonisti di sublimi gesti di coraggio – che ci sono stati e non vanno dimenticati – ma da tutta la comunità della montagna, che ha ravvivato il focolaio dei resistenti: è intervenuta, ha partecipato, si è organizzata, attraverso le sue famiglie, per dare rifugio e protezione a quanti ne avevano bisogno, nonostante proclami e diffide minacciassero di morte quanti avessero nascosto o aiutato disertori e partigiani, prigionieri e fuggiaschi, renitenti, con la minaccia di bruciare case e stalle, uccidere animali e distruggere ogni altro avere. La posta in gioco era alta. La gente, nonostante tutto, non si è fatta intimorire: portava loro il cibo di notte nelle stalle dove stavano nascosti, si assicurava che stessero bene, indicava loro sentieri e percorsi per raggiungere altre mete, insomma li considerava quasi loro “ospiti”, persone di famiglia, al punto che si creavano anche relazioni di affetto. La popolazione della montagna, povera di sostanze ma ricca di umanità, ha saputo rimanere sé stessa, anche dinnanzi alle minacce e alle sciagure provocate da un conflitto rovinoso. E si è rivelata tale nei momenti di maggior bisogno. Pure molti sacerdoti hanno messo a repentaglio la loro vita nascondendo sui campanili, nelle stanze più segrete della canonica, nei piccoli spazi angusti e interrati delle chiese, gruppetti di fuggiaschi. Basti leggere il bel libro “Ho fatto il prete” di Barbara Curtarelli, pubblicato nel 2018 dal Centro Studi Valle Imagna, per rendersi conto della base sociale della Resistenza. Bergamo e i villaggi nelle sue valli si è davvero rivelata la “cittadella del popolarismo”.

Manifesto della RSI contro il banditismo partigiano.

Liberi eroi senza storia

Una guerra combattuta pure negli insediamenti più periferici, come isolati sulle montagne, dove anche la natura si presentava aspra di difficile e bisognava conquistarla ogni giorno, estate e inverno. Una guerra combattuta nelle piccole contrade da migliaia di montanari, volti senza nome, eroi senza storia, donne e uomini, bambini e anziani, che hanno continuato ad affermare la loro esistenza e il proprio lavoro, come sempre, condividendo esperienze di vita e di morte. In molti casi era più facile morire che vivere e gli eroi vanno ricercati anche tra quelli che sono sopravvissuti, senza per questo nulla togliere a quanti hanno subito l’umiliazione e la negazione della vita. Una guerra di giovani e anziani, di bergamini e boscaioli, di muratori e contadini, di massaie e filatrici, consapevoli dei rischi che correvano, dei sacrifici doverosi pur di aiutare sbandati e disertori, ebrei e fuggiaschi, mettendo in pratica il valore della pietà cristiana e il principi dell’umana solidarietà. Anche quando sembrava che tutto fosse perduto e che le leggi imperanti dei nazionalismi avessero ormai devastato i principi cardine della nostra civiltà, alterando in modo irreversibile le condizioni della convivenza civile, le popolazioni della montagna hanno continuato ad esercitare, senza clamore, la loro “sovranità” di fatto sul territorio, forti della coesione sociale che si sprigionava dalle famiglie e nelle contrade, offrendo protezione e rifugio. La montagna è stata, per antonomasia, lo spazio delle libertà sociali, politiche e religiose, una grande riserva di tolleranza, un ambito di pensiero autonomo, creativo e di ampie vedute, una straordinaria culla di valori e fucina di nuove idee, lo scrigno della memoria, il laboratorio privilegiato per la costruzione di prospettive diverse da sperimentare, il punto di partenza per diverse esplorazioni nel mondo. Non a caso il movimento partigiano si è sviluppato soprattutto in montagna, nelle sue dimensioni popolari e più organizzate, dove ambienti mutevoli, a diverse altitudini, hanno offerto un sicuro baluardo. In montagna era più facile nascondersi, ottenere protezione, soprattutto nella fascia prealpina che, come una terra di mezzo, ha rappresentato una formidabile base operativa dalla quale coordinare e lanciare offensive “mordi e fuggi”, di guerriglia. Incursioni improvvise, veloci e chirurgiche. Un po’ come fanno anche i lupi.

I privilegi negoziati con la Serenissima

Così è stato anche nei secoli precedenti. Al tramonto della Repubblica Cisalpina, ad esempio, verso la fine del dominio napoleonico, nelle stalle delle nostre valli trovavano rifugio gruppi di disertori e renitenti dell’esercito imperiale stanchi del continuo guerreggiare, disillusi dei sogni di grandeur e ribelli nei confronti di una leva obbligatoria che si protraeva per diversi anni. Nel 1813, ad esempio, il Prefetto del Dipartimento del Serio destituì dalla pubblica carica il Cursore del Comune di Corna Imagna, accusato di connivenza con i disertori. Gruppi di sbandati e disertori armati reclamavano denaro pubblico. Una ricca documentazione, conservata presso l’Archivio di Stato di Bergamo, mette in evidenza una situazione tutt’altro che pacifica e il formarsi in quel periodo di notevoli insorgenze anche di natura politica. Anche sotto il dominio di Venezia le popolazioni delle montagne orobiche avevano negoziato e ottenuto una serie di privilegi, in cambio del presidio del territorio e della fedeltà alla Serenissima, particolarmente gradita nelle zone confinarie dello Stato di Terraferma. E così, risalendo la china della Storia, sino al periodo medioevale, arriviamo a quando i feudatari avevano accettato di ridurre la loro sovranità sulle terre alte, riconoscendo ai montanari la condizione di uomini liberi e consentendo quindi la diffusione della piccola proprietà contadina. Ciò non avvenne in pianura, dove i braccianti agricoli rimasero completamente in balia delle grosse concentrazioni terriere sino alla prima metà del Novecento.

… e finalmente la smobilitazione. Foglio di congedo illimitato del soldato Giuseppe Dolci di Sant’Omobono.

Popolo di pensieri raffinati

Un antico proverbio ha definito i montanari, come Bertoldo, persone dalle “scarpe grosse e cervello fino”. In senso spregiativo si voleva così rappresentare individui predisposti al lavoro e alla fatica, anche in modo grossolano. In realtà, siamo in presenza di un popolo dai pensieri raffinati, sostenuti da un forte radicamento nella concretezza, imposta quale stile di vita nelle terre alte, dove occorre calzare gli scarponi. Acume e intelligenza, operosità e creatività, fede e coraggio, sono qualità alla base di molti loro comportamenti resilienti, capaci di opporre resistenza a situazioni di barbarie, con la forza necessaria per affrontare e superare situazioni difficili. Le terre alte sono state nel passato e rimangono tuttora spazi aperti, di inclusione e non di esclusione, di incontro e non di confine, una cerniera e non un barriera nei confronti di quanto c’è aldilà. Spazi aperti che invitano a salire verso il Cielo, dove sono riposte le grandi Speranze, e a guardare lontano, traguardando le alture circostanti e a pensare alla grande. Spazi diversi e mutevoli, il fondovalle dai versanti, le praterie montane dalle cime, i contesti abitati dalle rupi selvagge, seguendo l’evolversi delle stagioni, costituiscono un espresso stimolo al cambiamento e rafforzano nelle singole persone attitudini, capacità e nuovi entusiasmi. C’è bisogno, oggi più che mai, di ripartire dalla terra e dalla montagna per tenere aperti spazi alternativi di pensiero e di azione. Si parte e si ritorna alla montagna, con gli scarponi ai piedi. È questo il nostro 25 Aprile, con antiche arie di libertà.

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Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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