Lo vedo poco distante dalla riva mentre percorro l’alzaia donde risalivano i barconi, trainati di solito da due cavalli veri animali di fatica. Qualche colpo di remo da esperto e la barca si gira per risalire la corrente.
Sto andando al Molinazzo dove operava una vecchia filanda avviata alla fine del ‘700 dalla famiglia Carozzi che sopra l’incavo del fiume aveva la villa oggi nascosta da canne di bambù. Il nome allude al mulino tra i diversi che ci dovevano essere. Al Carozzi subentrò Francesco Felolo che alla filanda aggiunse un alloggio per le operaie, la stragrande maggioranza delle forze lavoro.
Ritrovo il barcaiolo sulla strada e parlo con lui di pesca. “Non c’è più niente”. Niente di “anguille, arborelle, luzzi, tenche, trottelle, agoni, scardolle, cavezzali” come avevo letto nel corposo volume su Brivio (Brivio, ponte dell’Adda di Angelo Borghi e altri) preso in Biblioteca. “Niente pesci. Se li mangiano i siluri oppure ci pensano gli uccelli acquatici, gabbiani e aironi”. Avevo visto in una foto risalente agli anni ’60 l’ultimo pescatore di professione che esibiva il mostro del peso di un quintale. “L’ha pescato proprio qui, in fondo alla scaletta. Me lo ricordo, Aldo Mandelli, che abitava con i fratelli lassù, alla “Bella Venezia”, la casa e il ristorante che gestivano. Poi hanno chiuso anche quello”.
In passato un terzo del paese viveva di pesca, d’inverno e d’estate sempre in acqua, su e giù per il fiume, a controllare le gueglie, le trappole dove i pesci si infilavano e non trovavano più l’uscita, a sistemare i legnari, a pulire i passaggi, poi a venderlo in piazza o girare per cascinali e a Beverate. C’erano lotte coi bergamaschi di Villasola e Monte Marenzo che invadevano un campo loro secondo l’accordo stipulato tra la Repubblica Veneta e il Ducato di Milano. Il lago, allora era ben più di una striscia, era dei milanesi, a loro toccava la pulizia quando la piena portava a valle tronchi e fanghiglia. Alcune famiglie importanti avevano l’uso, a settori, o diritti che poi subaffittavano ad altri: il diritto per pescare, tagliare giunchi o erba, costruire legnari, mettere le reti, gestire passaggi, ‘prerogative su isolotti, e pure il diritto di prelevare ghiaccio d’inverno, quando gli inverni erano rigidi. Da qui le furiose lotte a colpi di archibugio, interventi della milizia, arresti e processi. Nel Settecento, col venir meno della potenza veneta, le contese crebbero fino a Napoleone quando i confini sparirono.
Aggirandomi per i vicoli sono passato dalla casa di Cesare Cantù, riconoscibile dal medaglione scolpito con la sua effige. Grande letterato storico e politico del Risorgimento, direttore dell’Archivio di Milano, fu anche romanziere. Il suo Margherita Pusterla ebbe enorme popolarità. La storia è ambientata nel Trecento, nella Milano dei Visconti. Sono coinvolti le famiglie dell’alta società e il cugino del Duca, Luchino Visconti. Costui si era invaghito di una bellissima dama e sposa del ricco possidente Pusterla. La storia è intessuta di corteggiamenti, congiure, fughe, destini incrociati. C’è chi aiuta e chi trama nell’ombra, la persona disinteressata e l’invidioso, chi cova rancori e chi si rode di gelosia fino a concepire il delitto. L’opera è intrisa di pessimismo, la donna è insidiata e tradita, confinata nel carcere duro; né il marito né tanto meno il tiranno hanno una volontà di comprensione. Margherita, pur innocente, va incontro ad un tragico epilogo
A due passi c’è la piazzetta della Sinagoga segno della presenza di una comunità ebraica. Il posto aveva importanza strategica e militare, transito di uomini e merci. Ebraica e di origini svizzere era la famiglia Gibert che rilevò un’altra filanda situata nel castello ormai abbandonata e avviata da un altro Cantù.
Antica è la chiesa o Oratorio di Sant’Antonio, con le sue devozioni e festività, qualcuna ancora viva. Nei dintorni e soprattutto nella conca di Beverate era fiorita l’agricoltura. Si coltivavano frumento, segale, miglio, fave, fagioli e poi c’erano i castagneti e i boschi che salivano sul Monte Brianteo. Ancora oggi sono rimasti diversi cascinali sparsi. Gran parte dei terreni fu in mano al Monastero benedettino di Civate. Con le vocazioni in calo in corrispondenza del crescere degli Ordini mendicanti, nel ‘500 il Monastero fu chiuso e le proprietà messe in vendita. Chi ne approfittò – non certo la gran massa dei contadini – creò una serie di legami di affittanza e subaffitto, di mezzadrie e di servitù, di dazi e diritti di transito, che si trasmettevano di padre in figlio. C’erano insieme abitazioni, forni, torchi, mulini, fornaci, calchere, e chi riscuoteva poteva essere a Milano o magari a Roma.
Quando ho visitato la Chiesa di San Leonardo ho parlato con una signora nativa di Brivio. Mi diceva del marito che teneva qualche filare di vite ad uso di famiglia. E’ una zona ben esposta e da sempre adatta a questa coltivazione. Aveva lavorato nell’azienda vinicola dei Villa, grossi commercianti, e proprietari anche fuori regione, con sede nel castello. Mi ha fatto notare la bella immagine della Madonna del latte attribuita ad un allievo di Leonardo. E’ protetta da una cancellata perché, aggiungeva, “gira un po’ di tutto, e sotto il porticato si rintanano giovani di paese e fuori. Tanto più adesso che siamo senza prete dell’Oratorio” e lo dice con un certo sconforto.
San Carlo in occasione di una delle famose visite aveva fatto delle raccomandazioni, che allora significavano ordini. L’altare di San Mamete andava tolto, scoraggiata la devozione anche perché incerta la sua origine storica. A lui si rivolgevano le partorienti o chi invocava una gravidanza dando adito a superstizioni e esagerazioni. La Chiesa faceva fatica a controllare il mondo femminile, il corpo e la sessualità. Inoltre era impegnata, dopo il Concilio di Trento, di cui San Carlo era un paladino, a combattere il protestantesimo dilagante e non voleva prestare il fianco alle accuse. Ma la statua di San Mamete è rimasta, a lato, nella cappella dell’Addolorata.
“Il nostro prevosto è rimasto solo e deve correre anche a Beverate”. Pensare che secoli addietro la Chiesa di Brivio era chiesa di riferimento (pieve) per tutta la zona, da Merate ad Airuno, e in grado di sostenere 12 canonici. La Parrocchiale, ripetutamente rifatta e ampliata, è dedicata ai Santi Sisinio Martirio. Non si tratta,riguardo a quest’ultimo, del martire di Bergamo. Sono Santi che vengono dalla Val di Non in Trentino, chissà come arrivati qua.
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