Dal Corso non si vede la Chiesa di San Carlo, la facciata è coperta per restauro. Era sulla strada della vecchia Corsia dei Servi che mi ricorda il centro culturale di Padre Turoldo. La Corsia dei Servi era la strada che veniva dal Duomo e portava a Porta Venezia, oggi Via Vittorio Veneto.
Alessandro Manzoni, che non abitava distante, colloca in questa via l’episodio dell’assalto al forno. Il forno era ancora funzionante al suo tempo con lo stesso “nome impronunciabile composto di parole così bisbetiche così selvatiche che l’alfabeto della nostra lingua non ha i segni per indicarne il suono” e perciò semplicemente detto forno delle grucce. Renzo, capitato a Milano per le sue disgrazie, al posto di aspettare in chiesa come gli aveva suggerito il padre del convento a cui si era rivolto su indicazione di fra Cristoforo, era uscito in strada e lasciandosi attrarre dal brulichio là dove si faceva più rumoroso, era finito per mettersi nei guai.
La signora che è seduta al tavolino e sorveglia mi racconta della Chiesa. Era originariamente sorta nel Trecento, con i Padri Serviti, occupante una parte dell’attuale, che è invece in stile neoclassico a imitazione del Pantheon di Roma. “Questa chiesa ha tante cose notevoli” e me le indica a cominciare dalla scultura in rilievo all’entrata, una Natività con S. Ambrogio, poi la tela provvisoriamente esposta sull’altare maggiore e conservata in sacrestia come altre che il parroco vuole mostrare a rotazione, l’altare minore dedicato al beato Porro che guarì San Carlo fanciullo, la maschera mortuaria dello stesso Borromeo, il prezioso Crocifisso ligneo, e se non fosse stato per una signora con i tre sacchi gialli che chiede dove metterli – “sono della mamma che ci ha lasciato e stiamo svuotando gli armadi ma sono vestiti in buon stato e di pregio” – altre notizie mi avrebbe dato. “Ah lei l’ha conosciuto a Fontanella. Si, Padre Turoldo è stato qui e lo hanno ricordato di recente. C’è una sua riproduzione in sbalzo all’altare laterale che vede di fronte”.
Milano è stata la città di San Carlo Borromeo. La resse come vescovo per vent’anni. Morì sfibrato a 46 anni. Crebbe nei palazzi ma amava vivere a contatto con la gente, fu capo e pastore, vescovo e pellegrino, moralizzatore e benefattore, forte con gli occupanti spagnoli e intransigente con i collaboratori, inquisitore e difensore dei deboli. Non c’è chiesa o paese delle nostre valli e della pianura che non abbia un dipinto o una statua che lo ritrae pallido, scarno, il naso aquilino, gli occhi infossati, in preghiera o in processione, tra gli appestati o ai piedi della Croce, con la mantellina rossa e il libro in mano, contemplante e benedicente, venerato e additato come esempio di dedizione.
Fuori, verso il Duomo siamo nella Milano chiassosa e dello shopping, giovanile e turistica. Cinesi indiani filippini giapponesi indonesiani sud e nord americani, e poi francesi spagnoli inglesi polacchi o dell’Est in genere, sotto i portici e nella via, con le buste, dentro e fuori dei negozi, ai tavolini o nei gazebo. Chi passeggia si vede aggirare da biciclette e monopattini, elettrici nella città elettrica. Qualcuno è già in pausa pranzo e fa gruppo, in movimento o in sosta a consultarsi come quelli a cui chiediamo della Chiesa di San Giuseppe. Mi risponde e comincia con “diritto e poi destra” ma l’altro ci scherza “non ascoltate l’esperto che è appena arrivato da Londra ed è una vita che manca da Milano”.
Tra le vie del cuore di Milano fino al Castello e oltre, verso l’Arco Sempione, attraversando il parco su uno sterrato polveroso, gli alberi spiritati dall’arsura, un’oasi verde intristita, ingialliti spiazzi erbosi dove qualcuno trova però riposo e per stare in compagnia, si gode il sole e si rilassa. Noi preferiamo la panchina della fontanella. Scende un magro getto che nella vaschetta risuona in dolce borbottio che par di essere in montagna. Accresce la nostalgia della pioggia, di gemme, di foglie, di verde acceso. Il cielo, sgombro di nuvole, è azzurro; il sole manda un alone biancastro. Riscalda dopo la nottata fredda e mette di buon umore.
Tre donne orientali provano una danza, sul palco lasciato per gli eventi. Si muovono d’intesa, in armonico allargarsi di braccia, il corpo che si piega flessuoso, le braccia e le dita altrettanto protagoniste. Nel ristoro all’angolo mangiamo pasta di tuffoli che non è male.
Si torna per altre strade. Ci troviamo a passare per un marciapiede dove sono allineate moto di grossa cilindrata che non è certo una rivendita, ma in sosta di lavoro, uniformate dal nero delle coperture. Siamo davanti al portone che senza enfasi reca scritto “Consob”, l’organo di sorveglianza della Borsa e delle operazioni finanziarie. Sarebbe l’agenzia preposta a garantire i nostri risparmi e dei nostri tremebondi movimenti che partono sotto incoraggianti auspici e si rivelano prolungate pene. Abbassiamo la testa e tiriamo avanti.
Si torna come per il gioco dell’oca in Piazza Duomo ma passando per Piazza San Fedele che dà sempre un senso di tranquillità, un riposo sulla panchina a guardare la statua di Manzoni.
Ogni occasione è buona per tornare a Milano. Questa volta in compagnia della nipote, venuta da lontano ad un incontro per una “società creativa”. Giusto per sognare oltre il proprio cortile.
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Mangiare a Milano
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