La Chiesa si chiama San Pietro in ciel d’oro. Ci sono arrivato camminando da Piazzale Minerva a Santa Maria del Carmine, fino al Duomo, risalendo a Piazza della Vittoria, poi al Castello Visconteo. E’ la chiesa dov’è l’urna con i resti di Sant’Agostino, nell’Arca marmorea posta sull’altare maggiore.
Erano stati portati qui su volere del Re longobardo Liutprando. Dava lustro alla sua città, Pavia, la capitale del Regno che i Longobardi avevano creato dopo la caduta dell’Impero romano, e che comprendeva gran parte d’Italia. Venivano dal Baltico, anche loro attratti e affascinati da Roma. Riscattavano le oscure origini, disposti ad accettare la religione dei conquistati. Lui e il suo popolo si erano battezzati. Al Papa lasciarono una striscia di terra dell’Italia centrale. Liutprando voleva dare prestigio alla città con le spoglie di un Santo importante, come stavano facendo e faranno altri. Terre d’Oriente e d’Africa, un tempo cuori pulsanti di vita cristiana stavano diventando pagane, abbandonate erano le spoglie di martiri e maestri di fede che custodivano. Le ossa di Sant’Agostino erano già riparate in Sardegna. Non sembrava ancora un posto sicuro. Liutprando le portò a Pavia, in questa chiesa, dove pure lui vorrà essere sepolto.
Agostino morì a Ippona in Africa, sulle coste della Tunisia. Era nato a Tagaste, poco lontano. Il padre era funzionario imperiale. La madre Monica attaccatissima al figlio. Si prodigò per la sua educazione. Il ragazzo rispondeva bene. Imparava e si appassionava. Agostino frequentò la scuola di retorica, che apriva tante porte. La politica a Roma si svolgeva nel foro. Richiedeva chiarezza di esposizione, capacità di entrare in sintonia, forza dialettica e di argomentazione. Serviva la retorica. Non bastava per aspirare alle alte cariche, appannaggio delle classi privilegiate, ma era un’arte che muoveva la società romana. Agostino lesse con fervore Cicerone.
Era un uomo inquieto Agostino. Non si accontentava della tecnica retorica. Voleva capire. Correnti di pensiero contrastanti travagliavano allora l’Impero e la Chiesa africana, vivacissima. Raccolse il suo travaglio interiore nelle Confessioni. Lui parlò della sua vita licenziosa di adolescente e poi dalle grandi domande che lo tormentarono. Seguì Mani perché la sua dottrina dei due principi, del bene e del male, gli sembrava una risposta accettabile al disordine morale che osservava. La religione del Libro Sacro dei cristiani l’aveva scandalizzato: come credere a tale Dio iracondo, passionale e troppo umano?
Andò a Roma, crocevia di culti e di dottrine. Divenne un retore brillante. Ebbe la possibilità di farsi apprezzare dallo stesso imperatore. Non gli bastava. Sentiva il bisogno di mettere pace dentro di sé. La madre Monica gli aveva tenuto vivi i contatti con uomini della nuova fede. Si ritirò in una comunità di persone come lui bisognose di maggiore spiritualità alle porte di Milano, in Brianza. Poi l’incontro con Ambrogio, la conversione. Lasciò l’insegnamento, una carriera brillante e promettente. Fu uomo di azione. Abituato alle battaglie retoriche, si fece presto notare. Di lui c’era bisogno nelle diatribe che attraversavano la Chiesa. Divenne pastore, fu nominato vescovo a Ippona, in Africa ancora.
Prima di partire da Ostia in attesa della nave– allora bisognava attendere la stagione e i venti favorevoli – ebbe uno degli ultimi colloqui con la madre ormai malata. “Lontani dal chiasso, si parlava tra noi con grande dolcezza. La bocca della nostra anima si apriva avida alla fonte della vita. Ci rivolgemmo alla contemplazione e all’ammirazione delle Tue opere, Signore”. A Monica non importava il luogo della sepoltura: “vi prego solo di ricordarmi davanti all’altare del Signore”.
Fu uomo di azione, instancabile, governatore, funzionario, giudice, direttore spirituale, interlocutore richiesto da comunità lontane. Rifletteva e scriveva. Impressionante quello che ha prodotto, componendo e rifacendo. Per trent’anni, fino alla fine, quando i Vandali erano alle porte. Era evidente per lui che l’impero si stava sfaldando: “il mondo perisce ma non la fede”.
Nella cripta è sepolto un altro gigante del pensiero occidentale, Severino Boezio. Con noi sono entrate due donne. Anche loro cercavano un contatto fisico con chi avevano conosciuto a scuola e nella nostra tradizione culturale. Al tavolino vicino alla porta era seduto un padre agostiniano, una signora confidava a lui l’affanno di una vita che da poco l’aveva privata del marito.
La piazzetta era deserta, protetta dalla corona di verde acceso dei tigli. Il frastuono del traffico era più in là.