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Dici Gianni Minà e la mente corre a Pietro Mennea, a Cassius Clay, a Diego Maradona, a Enzo Bearzot. Ma anche a Robert De Niro, a Sergio Leone, a Massimo Troisi. Le sue interviste entravano nel profondo, ti guidavano alla scoperta degli aspetti più intimi e privati dei personaggi. I suoi racconti ti coinvolgevano ed emozionavano con quel pathos che solo i grandi cantori sanno trasmettere.

Gianni Minà è stato un Maestro, uno di quelli che ti scopri a seguire incantato per quella loro naturalezza nel portare a livello di tutti le storie di campioni dello sport come quelle dei grandi artisti del cinema. I ricordi si rincorrono e riportano agli anni Ottanta. Gli anni dei record di Mennea e Sara Simeoni, del Mundial di Spagna, dei match di Muhammad Alì. Ma anche di quell’incredibile trasmissione della domenica, Blitz, che rivoluzionò il modo di fare intrattenimento, così libero e scanzonato rispetto allo stile paludato di Domenica in.

Ma Minà non era solo un giornalista sportivo, pur di straordinario livello. Era anche un amante dell’America Latina come dell’America tout court. Tra le sue interviste storiche, oggetto anche di critiche, quelle a Fidel Castro come a Gabriel Garcia Marquez. Ma era anche molto amico di Robert De Niro e di tanti attori e registi come di scrittori. Come ha detto qualcuno, è stato “l’uomo che ha intervistato il mondo”. Di lui colpiva l’approccio sempre pacato, la curiosità, l’attenzione verso l’interlocutore. Mai sentito o visto alzare la voce. Con grandi convinzioni ideali ma mai prevaricatore nei confronti di chi la pensava diversamente. Un signore, un galantuomo. Un uomo di un altro mondo e di un’altra epoca. Un altro faro che si spegne.

Rivedere spezzoni delle interviste e dei reportage di Gianni Minà rende ancora più stridente quel senso di straniamento che vive chi, amando il giornalismo fino a farne professione e ragione di vita, per ragioni anagrafiche ha avuto il privilegio di vivere stagioni lontane e fatica a ritrovarsi con i protagonisti di oggi. La mia generazione, per tacer di quelle precedenti, è cresciuta, per quanto riguarda la televisione, abbeverandosi alle inchieste di Sergio Zavoli, alle trasmissioni di Enzo Biagi, alle interviste di Oriana Fallaci. E naturalmente a quelle di Minà (oltre che di Maurizio Costanzo). Era un giornalismo sobrio, senza fronzoli, strettamente ancorato ai fatti, attento alle persone ma lontano dal gossip morboso.

Niente a che vedere con i talk show di oggi e con i loro protagonisti. Ora non contano i contenuti, si cerca solo la rissa. E i conduttori paiono più domatori (o forse, aizzatori) che giornalisti. Gli studi televisivi sono diventate arene e talvolta pollai. A nessuno interessa fornire un servizio, ciò che conta è solo il dato dell’Auditel. Anche se è brutto da dire perché sembra il solito discorso da vecchi, avviandomi a fare il giornalista ho avuto di fronte modelli come i maestri sopracitati, per non parlare, sul fronte della carta stampata, dei Montanelli, Scalfari, Bocca, Pansa, Bettiza, Corradi, Mo, Valli. I colleghi che hanno fra i 30 e i 40 anni a chi possono guardare? Chi sono i loro punti di riferimento? C’è qualcuno di quelli che oggi riempiono gli schermi tv che possa anche solo lontanamente avvicinarsi ai giganti del passato?

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