Nel periodi di Avvento di qualche anno fa un gruppo di cantori bergamaschi fece visita all’allora papa Benedetto XVI. Gli donarono un suo ritratto. Un delicato e simbolico cromatismo sottolineava il ruolo di guida spirituale mentre uno sguardo pensoso esprimeva la riflessione teologica di una personalità chiara e trasparente. Papa Ratzinger lo guardò e disse: «Questo pittore lo conosco!». Quattro parole che valgono più di tante pompose presentazioni spesso redatte senza davvero indagare l’opera di un artista, ma con un intendimento autoreferenziale del critico di turno il quale, attraverso una scrittura complessa, criptica e tanto indigesta, vuol brillare più delle tele che intende descrivere.
Angelo Capelli (scomparso mercoledì a 92 anni) non aveva bisogno di queste arrampicate linguistiche, di questi effimeri esercizi di stile. I suoi ritratti, i suoi paesaggi sono un pezzo di cielo lombardo che si stacca dalla volta celeste e va a poggiarsi su un cavalletto. Quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. Sono parole del Manzoni da qualche parte nei Promessi Sposi. Di quel cielo il maestro Capelli ne era l’interprete più gioioso, ingenuo, schietto e speranzoso. Perché Capelli la speranza la impastava nei colori e ne impregnava la tela.
Ha sempre conservato lo sguardo di un ragazzino. Curioso della vita, ottimista per l’avvenire e decisamente caustico con chi nelle redazioni dei giornali alla luce dirompente delle sue pennellate preferisce “capolavori” tristi, buoi, cupi anche per le pagine culturali delle edizioni natalizie. Non a caso il suo frutto preferito è il melograno simbolo della vita che procede, che non s’arresta. Quanti ne ha dipinti su carta da pacchi nel suo studio a Villa d’Almè. Li teneva dentro una grande cartella, in un angolo, in quel disordine ordinato che è il suo laboratorio: tempere, pennelli, barattoli di china, macchie di colore e un tavolo zeppo di carte, qualche francobollo ritagliato e una moltitudine di libri d’arte.
Eera uno sforzo sovrumano, quasi una perfidia della fantasia, immaginare Angelo Capelli lontano dalla pittura. Con l’arte è stato un tacito matrimonio consumato senza testimoni quando frequentava l’asilo e furtivamente, eludendo la sorveglianza delle suore canossiane, si metteva nelle tasche rimasugli di gessetti colorati consumandoli in promettenti viluppi. «Ingiustamente noto – ha scritto Sergio Zavoli – per avere effigiato Giovanni XXIII in una serie peraltro straordinaria di ritratti, e in un arazzo (quella della beatificazione del “papa buono”, ndr.) divenuto altrettanto famoso». Un avverbio, quell’ingiustamente, che non intende sminuire le straordinarie abilità ritrattistiche di Capelli, bensì esaltare quei paesaggi collinari, quei bagliori in riva al fiume, quel sottobosco autunnale e quelle atmosfere da groppo estivo che svelano «un’errabonda, inafferabile libertà d’invenzione, leggera o grassa di pennello e d’impasto, luminosa d’aria e struggente d’innocenza».
A capire che quel ragazzo aveva del talento è stato un ingegnere della Società Orobia (gruppo Edison). Assunto in ditta dopo la morte prematura del papà come operaio destinato a scavare le buche per i pali della corrente elettrica, Capelli nei ritagli di tempo si distraeva disegnando a matita su foglietti di block notes: un bambino che gioca a biglie per la strada, un imbianchino che sale una scala, una donna vista di spalle. In azienda sono sensibili all’arte. Ogni anno a Roma si organizzava un concorso interno, non per salire di grado nell’organigramma dell’impresa, ma per sostenere, in un’ottica di mecenatismo rinascimentale, chi per l’arte era nato. La proposta di un concorso spaventò il giovane Capelli. Poi si lasciò convincere. Con un paesaggio intitolato “La Draga di Briolo” vince il terzo premio. Un riconoscimento che acquista una valenza maggiore se si considera che nei banchi della giuria sedevano personalità come Giorgio de Chirico e Luigi Pirandello.
L’anno successivo migliorò il podio: la sua tela agguantò il primo posto in classifica. A un certo punto, per il reiterarsi dei successi, gli organizzatori gli imposero una sorta di embargo: per dare una chance anche ad altri artisti era preferibile che Capelli non mandasse più opere. «Così – mi raccontò un giorno nel suo studio – ho seguito Ermanno Olmi (allora geometra nella stessa Società Orobia) nelle sue peregrinazioni documentaristiche in giro per l’Italia. Lui filmava, io disegnavo». Un’amicizia alimentata da una stima reciproca per le rispettive arti. «Non hai tradito la tua natura – gli diceva il regista di Centochiodi – e questa natura, ogni volta, ti rivela la poesia dei suoi misteri sempre nuovi e sempre inespugnabili».
Poi fu la volta di Parigi. Capelli s’imbevve del Louvre studiando nei dettagli la Gioconda di Leonardo. Certo, il sorriso, enigmatico, quasi androgino, ma più di tutto lo colpì la perfezione delle mani e quel paesaggio “rubato” verosimilmente all’Adda. E poi la schiera degli impressionisti e uno fra tutti Vincent Van Gogh. «Al mattino – mi raccontava Capelli – prendevo le necessarie lezioni osservando i grandi di ogni tempo e nel pomeriggio dipingevo per le strade parigine. Una vita, stile bohemienne, vissuta in casa di un cugino con caschi di banane e patatine fritte per contrastare la fame nella speranza che qualche turista americano comprasse un mio lavoro».
Adesso, a distanza di anni da quelle sortite giovanili nella sala dei papi della nunziatura di Parigi (esposti con successo di pubblico e di critica nella chiesa di Notre Dame) figurano ben due ritratti di Angelo Capelli: il primo è un a olio che ritrae papa Giovanni XXIII e l’altro è un’effige di Benedetto XVI commissionata dall’arcivescovo Fortunato Baldelli, alloro nunzio a Parigi. Nella lettera di commissione c’era scritto: «Le invio un’immagine del Papa in sottana bianca. Dovendo prendere posto accanto a ritratti di altri Pontefici, per una certa uniformità, si desidererebbe che il Santo Padre abbia la mozzetta rossa».
Un altro ritratto di Benedetto XVI andò in mano all’allora vescovo di Passau in Germania, monsignor Guglielmo Schraml. Scriveva il prelato in un biglietto di ringraziamento: «Penso che abbia colto un’impressione forte del carattere vero del Papa che è nato nella nostra diocesi».
Il merito di tanto prestigio, oltre al talento indiscusso, sta nell’essere stato accanto, negli anni giovanili, a maestri dell’Accademia Carrara e dell’Istituto “Fantoni” di Bergamo come Longaretti, Donizetti, Aiolfi, Monti, Vitali, Ghidini, Lazzarini e Masseroni. «Anche se – concludeva Capelli le sue confessione autobiografiche – la mia prima scuola è stata nello studio di Aldo Locatelli, pittore di straodinaria tecnica, purtroppo scomparso, che ha trovato in terra brasiliana un ambiente ideale per esprimersi. In tempo di guerra mi faceva bucare i cartoni degli affreschi della bella chiesa di Santa Croce in Valle Brembana».
Un sacerdote, un tempo parroco a Santa Croce, vide nel salotto di Capelli due dei dieci bozzetti di quegli affreschi sacri. «Sa, Capelli, mi mancano proprio quei due per completare la collezione». «Sa, monsignore – rispose Capelli – a me mancano i suoi otto per terminare la mia».
I funerali di Angelo Capelli saranno celebrati sabato 26 novembre alle ore 9.30 nella chiesa parrocchiale di Villa d’Almè, partendo dall’abitazione in via Don Sturzo, 10
Leggi anche: Cardinale Capovilla: il ricordo del pittore Angelo Capelli