È un tema serio, l’emergenza sanitaria legata alla pandemia ha intaccato un tabù dell’organizzazione del lavoro in Italia e nel mondo: si lavora in ufficio, possibilmente in grandissimi spazi comuni, e si fanno lunghissime e partecipatissime riunioni su lunghi tavoli per ogni problema da risolvere o soluzione da spiegare.
Il primo a buttarla lì sulla stampa nostrana è stato il solito Stefano Boeri, l’architetto del bosco verticale, seguito a ruota da economisti giornalisti e politici. La cosa è talmente seria che il sindaco di Milano Beppe Sala si è preso male e ha invitato tutti a tornare quanto prima in ufficio in città, temendo lo svuotamento di interi quartieri metropolitani.
Il telelavoro avevano già preso a chiamarlo smart working, perché gli anglicismi riempiono la bocca. Questo fenomeno, per cui uno lavora dalla provincia senza bisogno di vivere le metropoli, lo hanno chiamato South Working. La suggestione è che tutti stiano sui faraglioni di Capri lavorando connessi a banda larghissima con l’ufficio in una delle nuove torri dello skyline (altro anglicismo) milanese.
In realtà penso che il lockdown (ennesimo anglicismo!) ci stia facendo riflettere sulle gioie del telelavoro perché nostro malgrado abbiamo scoperto che si può fare, cosa che non credevamo. Ma non credo che dai Faraglioni in motonave fino a Napoli e poi in treno fino a Milano per fare una riunione ogni, tipo, dieci giorni sia molto comodo ed economico.
Anche per chi più fortunato potrà sfruttare questo cambiamento culturale, la necessità di confrontarsi di persona, di fare riunioni pasticciando carta e lavagna resterà imprescindibile. Non tutti i giorni certo. Da qui la preoccupazione del sindaco Sala. Perché da Capri è un conto, ma da Roncobello è un altro.
Il Comune di questo splendido e ameno paesino dell’alta valle Brembana l’ha pensata bella: chiusa la scuola per mancanza di bambini, hanno riconvertito le aule in spazi di coworking (ancora la perfida Albione) andati letteralmente a ruba per tutta la stagione estiva tra i villeggianti delle seconde case. Pensateci: dalla torrida e afosa estate della pianura pedemontana lombarda potersi rifugiare nel paesino di montagna dove tanti anni fa si era comprato l’appartamentino, da anni inutilizzato, gravato dalle tasse e invendibile per assenza di un mercato delle seconde case nelle località belle ma sfigate delle Prealpi e delle Alpi.
Questo può effettivamente funzionare. Non renderà un deserto Milano e non riporterà al monte la diaspora del dopoguerra, ma contribuirà a dare una chance in più alla provincia, quella periferica lasciata a se stessa. Bella che ti si stringe il cuore ma dove non succede nulla e niente si può fare. Dove si vive bene e tutto costa poco, ma anche solo per gli acquisti devi macinare un’ora alla guida.
Una nuova vita per le seconde case restate vuote dopo il boom degli anni Settanta e Ottanta, una nuova vita per i paesini delle valli bergamasche. Non perdiamo questo treno, siamo abbastanza lontani e allo stesso tempo abbastanza vicini a Milano per offrire un servizio ai cittadini anche dopo la fine della pandemia.
Per la cronaca ho scritto queste righe dal mio ritiro in uno di quei paesini che ho appena descritto. Un’ora e mezza da Milano, è perfetto!