Oggi ricorre l’anniversario della marcia su Roma (100 anni fa), con cui – si dice – Mussolini prese il potere: il bello è che non è vero, quel giorno le camicie nere non riescono ad entrare in città, fermate dall’esercito regolare, e Mussolini non prende un bel niente, ma tant’è, il Duce lo metterà all’origine mitologica della narrazione propagandistica del suo regime. Un bluff capolavoro, a dimostrazione che ha fatto anche cose buone.
Il fatto ancora ancora più interessante è che fino a due giorni prima 40’000 camicie nere sono in raduno a Napoli. Benito al mattino informa il re che si rende disponibile ad entrare nel governo con i liberali a fronte di ministeri precisi, e nel pomeriggio di fronte alla folla accalcata e festante in Piazza del Plebiscito incita a spezzare le reni a quelli di Roma, “Prenderemo per la gola la vecchia classe politica. A Roma, a Roma”: fin qui niente di nuovo, i populisti hanno sempre avuto almeno due facce. La cosa interessante è che dopo il grido eroico ed eccitato “A Roma, a Roma”, Benito prende il treno e va a Milano, pronto a scappare in Svizzera nel caso le cose si mettessero al peggio: “Armiamoci e partite” non è roba sua, però se l’è guadagnata sul campo.
Il 28 ottobre del 1922 i fascisti, che hanno fatto loro il motto garibaldino “O Roma o morte”, sono fermati dall’esercito nazionale prima di entrare in Roma, alcuni ad Orte, legittimando la felicissima battuta “O Roma o Orte” nel film di Dino Risi del ‘62 (quante cose nel ‘62….), una delle migliori battute del cinema italiano: il proclamato atto eroico fascista di rinunciare alla vita per Roma, viene barattato con una scampagnata domenicale nella campagna viterbese.
E poi c’è il re Vittorio Emanuele III, complessato dalla sua bassa statura, pensava di essere preso per i fondelli se lo chiamavi “Sua Altezza”, a fronte dell’avanzata fascista dapprima chiede al primo ministro Luigi Facta di preparare il decreto per lo stato d’assedio, poi non lo firma, teme di perdere il trono a favore del cugino Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ben più poderoso e alto di lui: manterrà il trono ma perderà il treno della ragione storica, per finire su quello della vergogna scappando da Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43.
Resta il fatto che quelle squadracce furono sottovalutate, sembravano controllabili, avevano nomi altisonanti e tornati orgogliosamente di moda tipo “Me ne frego”, ma apparivano delle ragazzate, gli davi qualche ministero e si sarebbero tranquillizzate: non fu così. Insomma, una storia di personaggi degni della commedia all’italiana, in cerca d’autore e dell’uomo (o della donna) della Provvidenza: ci sarebbe da ridere se non ci fossero stati vent’anni di lacrime (non di gioia). Duce purtroppo non ha fatto rima con luce ma con buio, nero come le loro camicie. E’ partito col voler vendicare la “vittoria mutilata” nella Prima Guerra mondiale, e con la “soluzione vittoriosa”; ci porterà alla Seconda Guerra mondiale, finita come sappiamo.
“Armiamoci e partite”, non l’ha inventata lui ma ce l’ha rifilata, e noi l’abbiamo pagata. E le rate non sono ancora finite.