Finalmente Bergamo ce l’ha fatta. Grazie al coronavirus e grazie alla partnership con Brescia. Stavolta (2023) sarà capitale italiana della cultura dopo il fallimento subito dalla precedente amministrazione (giunta Tentorio). Per un anno intero dunque le 2 città – già apparentate artisticamente da una manifestazione prestigiosa come il Festival pianistico internazionale sulle scene da oltre mezzo secolo – dovranno programmare eventi e manifestazioni che, nel segno della cultura, saranno chiamate a dimostrare la valorizzazione delle proprie peculiarità artistico-storico-geografiche e al tempo stesso progettare nonché realizzare manifestazioni in grado di attrarre l’interesse nazionale e internazionale.
Un momento topico per il nostro territorio che dovrebbe rappresentare anche un volano turistico epocale per la nostra città. Città considerata ai margini del grande turismo internazionale se è vero che le permanenze dei visitatori vengono definite mordi e fuggi perché destinate ad esaurirsi nell’arco di una giornata, o quando va bene, di un pernottamento ulteriore. Del resto è storicamente assodato che il destino culturale di Bergamo è sempre stato quello di satellite di Milano. Inevitabile o, come avrebbe detto Conan Doyle, “Elementare, Watson!” considerata la mole di qualità di occasioni, eventi, monumenti, opere d’arte in generale messi a disposizione dal capoluogo
lombardo, il quale non solo per Bergamo ma anche per tutte le altre città regionali (e anche oltre) esercita la funzione attrattiva e gravitazionale che ha il sole rispetto a tutti gli altri pianeti del suo sistema.
Se questa consapevolezza fosse stata quella anche dei nostri politici – amministratori non avremmo assistito in passato (anche recente purtroppo) ad ambizioni frustrate di candidature sbagliate o a paragoni assolutamente improbabili o improponibili tipo “Bergamo come Salisburgo” o “Bergamo città d’arte” (è vero Bergamo è città d’arte ma sideralmente lontano da realtà come Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Palermo o anche solo come Mantova, Siena, Paestum). La stessa mancata consapevolezza che ha contraddistinto molte amministrazioni compresa l’attuale a guida Gori che – per restare solo in ambito musicale – ha visto sprechi di progetti e soprattutto di denari in improbabili festival lirici che non sono mai andati oltre l’autoreferenzialità.
Occasioni prive di un vero respiro nazionale e internazionale bensì fossilizzarsi sul provincialismo donizettiano. Si sarebbe dovuto, altresì, se spinti da profondo interesse per la cultura e per l’arte invece che per tornaconto elettorale, creare progetti (festival) in sinergia con analoghe realtà musicali (spesso anche più importanti e qualificate:vedi Parma per Verdi, Pesaro per Rossini, Lucca per Puccini e Catania per Bellini).
Allora sì che anche Bergamo sarebbe (finalmente) entrata in un’orbita più ampia a livello nazionale e internazionale, focalizzando su di sé non solo l’interesse del pubblico competente.
Ma tant’è. Ora ci siamo e non rimane che l’auspicio a chi gestirà idee e denari che sappia impegnarli esclusivamente a fini culturali nell’accezione più ampia, aperta, disinteressata e accogliente (per idee e proposte) possibile. L’occasione è unica, epocale e probabilmente irripetibile. Se le ambizioni, le partigianerie individuali saranno sopraffatte dall’effettiva esigenza del bene comune e del buonsenso per la bellezza e per l’arte a disposizione di tutti allora sarà una scommessa vinta per tutti e per tutta Bergamo. Non vorremmo d’altra parte assistere alle esibizioni dei soliti noti, amici degli amici e soprattutto all’abbuffata di finanziamenti da parte dei mostri sacri a scapito di tutti gli altri compresi gruppi, associazioni, sodalizi cosiddetti minori solo perché operano in circuiti meno acclarati, ma che spesso manifestano qualità e professionalità pari e qualche volta anche superiori a quelli cosiddetti blasonati.
E’ vero che la cultura è fatta di capolavori e di opere d’arte. Ma è altrettanto vero che l’humus sul quale capolavori e opere d’arte crescono e si sviluppano è costituito dalla realtà minuta, quotidiana frutto di elevato artigianato e studio meticoloso fatto di preparazione professionale di menti spesso geniali ancorché sconosciute, cui manca solo l’opportunità e l’occasione favorevole. La capitale della cultura dovrebbe essere l’occasione ideale per mettere in vetrina e valorizzare tutto quello che sul territorio anima, inventa e alimenta a 360 gradi il talento musicale, teatrale, pittorico, gastronomico, tecno-logico più ampio possibile. Anche in considerazione del fatto che per l’occasione gireranno tanti soldi, milioni di euro da ogni parte: Europa, governo, regione, sponsor. A cominciare dalla maggior banca del territorio. Infatti, Ubi Banca ha già stanziato per le 2 città la considerevole cifra di 9,5 milioni di euro pari a circa 20 miliardi della vecchia lire. Roba da costruire (quasi) una piccola città autosufficiente.
Ecco imporsi anzitutto il problema trasparenza. Come cittadini vorremmo e dovremmo essere tenuti al corrente sul come, dove e quando verranno utilizzati. Per non escludere nessuno e soprattutto per non favorire i pochi eletti. In tal senso (e ci conforta) fanno fede le clausole imposte dalla stessa Ubi che ha fissato subito un paio di paletti: sostegno delle realtà culturali in difficoltà e costituzione del dossier per l’investitura di capitale culturale. Questa è l’ora per la vita culturale cittadina affinché si decentri e si smetta di far ruotare tutto attorno al teatro Donizetti (e dintorni). E’ ora che la cultura, quella vera, venga portata nei quartieri, in tutti i quartieri e nelle periferie. Una cultura non più autoreferenziale e fatta da pochi guru ma progettata per un sistema di luoghi diffusi, come servizio primario. Una cultura che va alla gente, incontro alle persone. Non viceversa. Speriamo non sia utopia. O anche solo patetica illusione.