Il suo ultimo libro “Israele la paura la speranza. Dal progetto sionista al sionismo realizzato” è un documento avvincente per approfondire i nodi fondamentali della vita e della politica mediorientale. E’ stato presentato a Bergamo il 3 maggio (ore 17.00) alla Fiera dei Librai sul Sentierone in collaborazione con l’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam. L’autore, Bruno Segre (classe 1930, milanese di famiglia ebraica, allievo del filosofo Antonio Banfi), raccoglie, in un unico volume, i saggi redatti fra il 1970 e il 2013. Oltre 40 anni di analisi che palesano al lettore una testimonianza preziosa dei mutamenti radicali intervenuti, nel passare degli anni, nella “multi cultura” degli israeliani, nelle relazioni tra Israele e la diaspora ebraica (soprattutto la grande diaspora nordamericana) e tra Israele e il mondo. Il rapporto di Segre con Bergamo non è trascurabile. Nell’autunno del 1942, quando il centro meneghino cominciò ad essere bersagliato pesantemente dall’aviazione inglese, sfollò con la mamma e la sorella. “Rimanere sarebbe stato pericoloso. Così ci portammo sui colli di San Vigilio a Bergamo in due stanze che una famiglia ci mise a disposizione. Eravamo al civico 10, una casa gialla sotto la chiesa”. Non fu un periodo felice. Se nel 1938, a Milano, il fascismo, con le leggi razziali, aveva impedito al piccolo Segre di frequentare la quarta elementare obbligandolo a sostenere gli esami da privatista, una volta a Bergamo, con l’occupazione tedesca successiva all’armistizio, anche il mangiare quotidiano divenne una questione seria. “Ho il ricordo di una città miserabile. Davvero, ho patito la fame. Conservo ancora le foto mia sorella Laura che, più grande di me di due anni, era, come si dice, pelle e ossa”. Capitava che Segre scendesse da Città Altà alla volta di un contadino di Zanica per rimediare qualche patata.
“Aldilà delle possibilità economiche – mia mamma faceva traduzioni sottobanco per la Mondadori – in giro non si trovava cibo. L’olio una volta al mese. La carne un sogno. Per le uova si lievitavano sconsideratamente i prezzi. Restava il pane, anche quello razionato”. La situazione igienico-sanitaria era grave.“In Borgo Canale mancavano le fognature. Ricordo un’epidemia di tifo tra gli studenti delle scuole pubbliche”. In questo le leggi discriminatorie di Mussolini, che gli impedivano di mettere piedi in qualsiasi istituto pubblico, l’hanno salvato dal contagio. “Sono entrato una sola volta al Vittorio Emanuele, quella grande scuola aldilà dei giardini del viale della stazione, per l’esame di terza media. Nonostante fossi ebreo la valutazione fu un bel ottimo. Il mio nome venne, poi, pubblicato su L’Eco di Bergamo. Fu una soddisfazione”. Restare, però, in città con i tedeschi costituiva un pericolo. “Una sera bussò alla nostra porta uno sconosciuto. Era il fratello di un nostro vicino di casa. Ci avvertì che sua moglie, un ebrea tedesca, fu arrestata a Meina sul Lago Maggiore. Le alternative era due: andare in Svizzera oppure oltrepassare il fronte ponendoci nelle zone già liberate dalle forze alleate. Scegliemmo ques’ultima opzione. Finimmo ad Ascoli Piceno con una lettera di presentazione per i genitori della titolare di una casa editrice (Domus) che conosceva mia madre”. Dopo la Liberazione il rapporto di Segre con Bergamo non si interruppe. “C’è una bella amicizia con Giorgio Mangini, docente al liceo Sarpi. L’unica volta che ho visitato il campo di concentramento di Auschwitz accompagnai due sue classi. Rimasi colpito dalla profondità di alcuni lavori preparatori all’esperienza redatti dai suoi studenti”.