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Abbiamo detto che il Principio del cogito elaborato da Cartesio mi porta ad una evidenza, la certezza che esisto come essere che dubita e quindi che pensa. Si è detto che solo la facoltà pensante costituisce qualcosa di certo mentre le cose oggetto del pensiero, in quanto al di fuori di esso, sono dubitabili e su di esse continua a incombere l’idea del genio maligno.

A partire dall’unica nostra certezza viene infatti da chiedersi, ma tutto ciò che ci circonda sono solo idee presenti nella nostra mente oppure esistono anche le cose corrispondenti fuori di noi? Il cielo, la terra, le stelle, la sedia, il tavolo, le altre persone, sono soltanto idee riprodotte nel mio pensiero oppure esistono realmente?

Un dubbio di questo tipo schiude scenari davvero terrificanti, pensare che potrebbe non esistere nulla al di fuori del nostro pensiero costituisce a dir poco un’esperienza sconvolgente se si prova a pensarci anche solo per un istante. Cartesio, per rispondere a queste domande, per capire se una certa idea sia soltanto il prodotto della nostra mente oppure effettivamente trova riscontro nella realtà, divide le idee in tre categorie: quelle che abbiamo sempre avuto e pertanto non derivano dall’esperienza, ossia (1) le idee innate  (ad esempio l’idea di Dio), quelle che percepiamo come idee venute dal di fuori e che si sono formate grazie all’esperienza, che chiamiamo (2) idee avventizie (comele idee delle cose naturali, ad esempio l’idea del sole, dei fiumi, delle piante) e, infine, (3) le idee fattizie, ossia quelle formate o trovate da noi stessi, come ad esempio le idee di cose inventante (pensiamo all’idea dell’unicorno, o i personaggi di un romanzo). Si badi bene che le idee fattizie non sono inventate di sana pianta, ma trovano sempre in certa misura un fondamento nella realtà. L’unicorno pur non esistendo unisce l’idea del cavallo a quella delle ali e del corno, che sono esistenti.

Per scoprire se una certa idea può trovare corrispondenza nella realtà dobbiamo chiederci quale sia la sua causa, ossia da dove proviene. In particolare se proviene con certezza da fuori di noi oppure se è soltanto il prodotto della nostra mente. Certo, sostiene Cartesio, le idee dell’uomo e di altre cose naturali non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me. L’idea del fiore, ad esempio, essendo il fiore qualcosa di finito come sono io quale essere umano potrebbe davvero essere solo il prodotto del mio pensiero e non esistere realmente. Ma l’idea di Dio quale sostanza infinita, eterna, onnisciente, onnipotente e creatrice, è difficile credere che posso averla creata io stesso, che sia, insomma, soltanto il prodotto del mio pensiero, che, a differenza di Dio, sono finito, non eterno, non onnisciente e nemmeno creatore. La causa dell’idea di una sostanza infinita, sostiene Cartesio, non può essere un’entità finita e peritura qual è la mia mente, l’uomo non può creare qualcosa di più grande di lui. Per questa ragione, tale idea riferendosi a qualcosa di completamente estraneo a noi deve necessariamente essere innata e trovare corrispondenza nel mondo anziché rappresentare soltanto il prodotto del nostro pensiero. Questa, peraltro, è per Cartesio la prima prova dell’esistenza di Dio, il fatto che, lo ribadiamo, non essendo noi stessi esseri infiniti non possiamo produrre l’idea dell’infinito e della perfezione, e pertanto ciò che si riferisce a tale idee (Dio) non può essere il prodotto della nostra mente ma esiste realmente al di fuori di noi stessi.

In secondo luogo, se io, pur essendo finito e imperfetto (lo dimostra il fatto che dubito, se fossi perfetto non dubiterei) nonostante questo riesco a concepire l’idea della perfezione e della completezza allora è evidente che non mi sono creato da solo (anche perché se mi fossi creato da solo mi sarei creato perfetto e invece sono un essere incompleto e dubitante) ma da qualcosa al di fuori di me che sia perfetto e completo, e questo è Dio, il quale mi ha creato finito e imperfetto pur dandomi l’idea dell’infinito e della perfezione. Questa, che riguarda l’origine dell’uomo ed è strettamente connessa alla prima, per Cartesio è la seconda prova dell’esistenza di Dio, il fatto, lo semplifichiamo, che l’uomo se si fosse creato da solo si sarebbe creato perfetto ma non essendo tale deve esserci qualcos’altro (di perfetto) nell’universo ad averlo creato e dal quale dipende, che gli ha inculcato l’idea della perfezione.

A queste due prove il filosofo ne aggiunge una terza, presa in prestito da Anselmo, la prova ontologica. Non si può non ammettere l’esistenza di Dio in quanto la sua esistenza è necessaria alla sua perfezione (esattamente come non si può concepire l’idea di un triangolo se non attraverso una figura che ha tre lati e tre angoli). Non si può insomma concepire un essere perfetto che non esista, se è perfetto deve esistere, altrimenti gli mancherebbe qualcosa, l’esistenza appunto. Questa è la terza prova dell’esistenza di Dio. Inoltre, afferma Cartesio, se la mia esistenza dipende da Dio, e lo dipende per tutta la mia vita, allora Dio deve continuare ad esistere affinché il suo potere di creazione continui a manifestarsi per tutta la mia vita. La creazione è infatti, per il filosofo, continua, non si esaurisce in un solo gesto.

Ecco un estratto preso dal Discorso sul metodo nel quale Cartesio espone le prove teologiche:

In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che quindi il mio essere non era del tutto perfetto – dato che notavo chiaramente che era maggiore perfezione conoscere che dubitare – mi proposi di ricercare donde avessi appreso a pensare qualcosa di più perfetto di quello che in realtà io fossi e conobbi con evidenza che doveva trattarsi di qualche natura effettivamente più perfetta della mia. Non mi preoccupavo poi con altrettanto zelo di sapere donde venissero i pensieri di molte altre cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore e mille altre perché, non ravvisando in questi pensieri nulla che li facesse a me superiori, potevo credere che, se eran veri dipendessero dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione e, se non lo erano, che mi venissero dal nulla, cioè che esistessero in me per quel che avevo di imperfetto. Ciò però non poteva valere ugualmente per l’idea di un essere più perfetto di me; è infatti manifestamente impossibile trarla dal nulla e, d’altronde essendo tanto inaccettabile che il più perfetto derivi e dipenda da ciò che è meno perfetto quanto che dal nulla proceda qualcosa, non poteva neppure darsi che io ricavassi tale idea da me stesso. Così rimaneva solo che fosse stata posta in me da una natura veramente più perfetta di quello che io fossi, anzi avente in sé tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, cioè, per dirla in una parola, che fosse Dio [Prima prova teologica].

Inoltre, avendo coscienza di alcune perfezioni che non possedevo, pensai che non ero il solo essere che esistesse (se permettete, userò qui liberamente alcuni termini della Scuola), ma che, necessariamente, doveva essercene qualche altro più perfetto, dal quale dipendessi e da cui avessi acquisito tutto ciò che avevo; se fossi stato solo, infatti, e indipendente da ogni altro, così da aver avuto da me stesso tutto quel poco per cui partecipavo dell’essere perfetto, avrei potuto, per la stessa ragione, darmi tutto il sovrappiù che sapevo mancarmi e, in tal modo, essere anch’io infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, possedere insomma tutte le perfezioni che potevo notare in Dio [Seconda prova teologica]. […]

Dopo ciò volli ricercare altre verità, ed essendomi proposto l’oggetto dei Geometri, che io concepivo come un corpo continuo o uno spazio indefinitamente esteso in lunghezza e in larghezza, in altezza o profondità, divisibile in varie parti che potevano avere diverse forme e grandezze ed essere mosse o trasposte in tutti i modi – giacché i Geometri suppongono tutto ciò nel loro oggetto -, esaminai alcune delle loro dimostrazioni più semplici. Avendo poi notato che quella gran certezza che tutti attribuiscono ad esse dipende solo dall’evidenza con cui sono concepite, secondo la regola sopra ricordata, mi resi pure conto che non c’era assolutamente nulla che mi assicurasse dell’esistenza del loro oggetto. Per esempio vedevo bene che, supponendo un triangolo, bisognava che i suoi tre angoli fossero uguali a due retti, ma nulla vedevo che per questo mi assicurasse al mondo v’era un qualche triangolo. Quando invece tornavo a prendere in esame l’idea che avevo di un Essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa come nell’idea di triangolo è compreso che i suoi tre angoli sono eguali a due retti, e come in quella della sfera che tutte le sue parti sono poste a una eguale distanza dal centro e perfino con maggior evidenza; e di conseguenza che Dio, cioè questo Essere perfetto, sia o esista, è almeno tanto certo quanto non potrebbe esserlo nessuna dimostrazione di Geometria [Terza prova teologica]

Tratto da R. Decartes, Discorso sul metodo,  in Opere scientifiche, cit., vol. II, pp.144-147

Autore

Enrico Valente

Enrico Valente è nato a Torino nel 1978 dove si laurea in giurisprudenza nel 2004. Da oltre vent'anni si dedica allo studio e alla ricerca filosofica e da alcuni anni affianca la passione per la scrittura alla traduzione di saggi e romanzi. Con ”L'arte di cambiare, da bisogno a desiderio dell'altro” la sua opera di esordio, vince nel 2021 il primo premio al Concorso nazionale di filosofia ”Le figure del pensiero”, nello stesso anno riceve per la medesima opera la menzione d'onore al Premio di arti letterarie metropoli di Torino e arriva finalista al concorso di Città di Castello. Attualmente è impegnato alla preparazione di una collana intitolata ”Incontri filosofici” dedicata ai grandi protagonisti della filosofia che sta ricevendo un notevole riscontro da parte del pubblico ed è in corso di traduzione all'estero. Il suo primo numero “Il mio primo Platone” è arrivato finalista al concorso nazionale di filosofia di Certaldo (FI) 2022.

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