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I giorni del Ferragosto li ha passati nel suo grande laboratorio di Almè: un regno materico, cromatico e, in un certo senso, danzante. Perché lì ogni sasso, ogni radice di albero scovata nel Brembo, ogni schizzo di bronzo scartato da un processo di fusione, ogni foglia rossa raccolta in uno dei tanti parchi cittadini assumono la travolgente vitalità dell’arte. Certo, senza Cesare Benaglia che vi naviga nel mezzo, con il suo grembiule aperto e il suo martello di legno in mano, tutto sarebbe ordinario, ma con lui ogni cosa s’appropria di una resurrezione impensata. “La prego – dice – parli di me con moderazione. Non usi paroloni. Tanto le cose se devono succedere, succedono. Inutile forzarle”. Una saggezza sibillina, ermetica, condensata che non sarebbe giusto violare con una domanda che presupponga una risposta circostanziata. Meglio un chiaroscuro cognitivo dove alla luminosità accecante della logica si sostituisce lo scintillio momentaneo, ma deciso dell’intuizione.

Il bosco in una stanza

Cesare Benaglia ha 84 anni. Sta lavorando al bosco in una stanza: alberi sabbiati, dritti in pochi metri quadrati di uno spazio circondato da specchi e una fonte luminosa che arriva dall’alto. Non è ancora finito, ma già ora che la crisalide dell’opera si sta spezzando l’effetto è sbalorditivo. Quei pochi metri quadrati diventano un paesaggio infinito, dalle suggestioni da Signore degli Anelli, replicato da un perimetro riflettente. Alberi che, in un altro contesto – quello della chiesa di Longuelo nell’ultima Settimana Santa – sono riusciti, in una prospettiva contemporanea, a consolidare la relazione tra layout architettonico e liturgico. “Nella “tenda-chiesa” di Attilio Pizzigoni – precisa Benaglia – ho collocato una scenografia di dodici apostoli:  alberi pasquali, presenze assorte e ieratiche. Un’idea già realizzata nel 1997 per la vecchia chiesa di Redona dove Benaglia (in sintonia con il parroco don Sergio Colombo) aveva riprodotto, con vecchi tronchi cavi, un vero e proprio bosco di presenze lignee, erose e scolorite dal tempo, che dialogavano con sensibilità ed efficacia con la figura del Cristo”.

Cesare Benaglia un falegname innamorato dell’arte

Con semplicità e gentilezza Benaglia si racconta. “Ero un falegname che a 30 anni ha deciso di fare l’artista per irresistibile vocazione animato dall’innata predisposizione ad osservare la natura come un museo all’aperto, secondo la dimensione della meraviglia”. Così scrisse il compianto amico e critico d’arte dell’Avvenire, Domenico Montalto:Il torrente Quisa, pur violato dall’incipiente degrado ecologico della prima industrializzazione, assume per il giovane Benaglia l’aura mitica di un luogo dell’anima e dell’infanzia, di toponimo di una pedagogia della natura accolta con spirito autenticamente francescano, nei giorni trascorsi a parlare coi sassi del fiume, con gli alberi, con le rocce”. L’arte ha rappresentato per Benaglia la scoperta della bellezza del vivere a contatto con la natura. “La natura – spiega – è ciò che ha dato senso alla mia vita. Spesso ha rappresentato la forza di dimenticare sacrifici apparentemente insuperabili continuando con entusiasmo, nonostante tutto, il mio lavoro”.

L’influenza del pittore Angelo Capelli

Nel suo grande laboratorio c’è la la foto antica del nonno Mosè. Troneggia tra scalpelli, misture, colle, tinte e scatole delle scarpe piene di segatura. “Gli anni della mia giovinezza a Valbrembo (dove tuttora abita) li trascorsi tra la segheria, la falegnameria del nonno e il bosco dove, specialmente d’inverno, si andava a scegliere gli alberi da tagliare per poi farne tavole da usare per costruzione di casse per imballaggi, mobili, serramenti, carriole per il lavoro nei campi, tinozze per la pigiatura dell’uva e anche casse da morto”. Poi il nonno morì. Su Cesare Benaglia ricadde la responsabilità della falegnameria. Il lavoro diventò faticoso e, per ragioni economiche, ripetitivo.  “Per svagarmi un poco, la domenica incominciai ad avvicinarmi alla pittura con l’aiuto del pittore Angelo Capelli. Queste occasioni domenicali mi fecero conoscere altri artisti. Soprattutto in occasione dei numerosi concorsi di pittura ai quali incominciai a partecipare. A poco a poco, mi ammalai d’arte e, quanto tale malattia si rilevò inguaribile, decisi di scegliere questa difficile ma meravigliosa vocazione a tempo pieno


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