“Due magliette rosse, nello Stadio della Morte
Due magliette rosse come sangue nelle fosse
Per le donne di Santiago e la loro libertà
Sfidarono il potere con grande dignità”
È l’incipit di una canzone dei Modena City Ramblers, ennesimo germoglio della terra tra l’West e la via Emilia, a ricordare un evento storico, anzi doppiamente storico, per il risultato e la portata di significato: quel 18 dicembre 1976 i nostri Fab Four del tennis conquistavano la prima storica Coppa Davis nella Santiago del criminale Pinochet, col doppio Panatta-Bertolucci che otteneva il punto della vittoria indossando magliette rosse fuori ordinanza, in segno di protesta contro il regime locale e a sostegno del popolo cileno. Ci vuole fegato, o forse (in)coscienza, ma Panatta, estetica conservatrice ed etica progressista, dimostrò di averli entrambi e convinse l’amico Bertolucci al gesto di dissenso, vestendo il rosso, colore del sangue e dei fazzoletti che le donne cilene sventolavano per reclamare notizie dei loro cari desaparecidos. Alla faccia di chi dice che lo sport non è politica, chiedere a Tommie Smith e John Carlos, o a Jesse Owens e Luz Long, o a Cassius Clay: la verità è che ci vogliono le palle -non quelle da tennis-, altro che sentenze dal divano di casa.
Erano altri tempi ed altro tennis, l’unica continuità con i giorni nostri è che anche allora l’Italia era divisa su tutto, terrorismo rosso da una parte e stragismo nero dall’altra, chi voleva andare a giocare la finale a Santiago e chi no in segno di protesta contro il regime di Pinochet. Andreotti (Presidente del Consiglio) e i vertici sportivi non decisero, alla fine si andò e si vinse. Una vittoria tutt’altro che banale perché non solo sportiva, che consegnò le magliette rosse alla cronaca della Davis e alla Storia della protesta sportiva.
Oggi di rosso son rimasti solo i capelli del nostro tennista n. 1. Allora Panatta non arrossiva a girare per Roma con la Bertè in minigonna e Renato Zero stivalato in pelle fin sopra le ginocchia, mentre oggi il nostro n. 1 non arrossisce ad aver portato armi e bagagli a Montecarlo. “Lo fan tutti”, dicono, ma non è una buona scusa, e non è nemmeno vero: Nadal e Pecco, tanto per dire, sono rimasti a casa loro e lì pagano le tasse. Ma così va il mondo, però che bello quando a Roma in giro per la città o al cinema incontravano Panatta con la Bertè minigonnata da urlo e gli strillavano “A Panà, e grazie ar cazzo che nun vinci mai”. Non era vero, vinceva, eccome, era semplicemente il segno dei tempi in cui il campione era ancora uno dei nostri, non era l’alieno contemporaneo che vive in un altro mondo.
Panatta poi era la poesia del talento e della classe, un tennis in cui la sensibilità del polso e dell’avambraccio valeva molto di più della cifra fisica, “Vedi, voi pensate solo a portare a casa il risultato, avete perso il senso del bel gioco, del bel punto, il rumore di un colpo piatto, bello, armonioso: poff, poff. Fate dei colpi brutti, senza un senso, senza un minimo di armonia, niente proprio. Ma tu non puoi capì, vai, è mejo”. Panatta, a differenza di tanti altri, ha dimostrato che non è necessario diventare il numero 1, è sufficiente esserlo nato: e non solo come sportivo. Ma tu, tu che non hai visto giocare Panatta e le magliette rosse, non puoi capì.