Carlo Levi lo chiama Gagliano (non Aliano), ripetendolo come l’aveva sentito sul posto. Di quella parlata me ne sono accorto quando ho chiesto della casa dove si trovavano i dipinti di Levi. Mi sono rivolto a un anziano, berretto grigio, piccoletto, leggermente curvo. Di fronte alla mia incertezza ha fatto pochi passi e me l’ha indicata con la mano aggiungendo qualcosa come “là nell’angolo”. E’ bastato per sentire la distanza.
La pinacoteca di Aliano è fatta di due stanze: in una ci sono documenti, lettere, foto di lui le più varie, coi familiari, con gli amici pittori e intellettuali, gli incontri con le autorità e con la popolazione; nell’altra i dipinti di bimbi, madri, donne velate come i cori delle tragedie greche, istantanee di ragazzi, e il paesaggio aspro, macchie di verde e di ocra con ombre di grigio o di nero. Ci sono le case, le cose, gli animali, come il ciuco che ti guarda. Ci sono gli autoritratti: quello giovanile, uno sguardo di sé e dei propri propositi, quello di lui avanti negli anni, i capelli imbiancati, pensieroso.
La sua era una generazione che non tanto aveva conosciuto la Guerra ma le sue conseguenze ed era cresciuta con il fascismo. Era di famiglia benestante, ebraica, di Torino. Si laureò in medicina che non esercitò mai. Preferiva la pittura e nell’ambiente artistico maturò le sue idee politiche socialiste e antifasciste. Ad Aliano arrivò nel 1935.
Quando uscì il film di Francesco Rosi (Cristo si è fermato a Eboli), noi reduci del ’68 lo vedemmo e lo apprezzammo per quello sguardo sulla gente e gli umili. Conoscemmo la Lucania povera, dagli scenari brulli e assolati, terre sperdute, fatte di calanchi che tagliavano le montagne, luoghi per asini e capre, la vita semplice di uomini e donne abituati a contrastare una natura inclemente.
Quando mio cognato mi ha proposto la visita ad Aliano non ho capito. “Il paese dove fu confinato Carlo Levi!”. Non sapevo che qui aveva voluto esser seppellito. Abbiamo cercato la tomba. Non era la giornata ideale, pioveva, qualche fatica a trovarla. E’ semplice e curata, con il cartello di spiegazione. Vi si legge che qui veniva spesso a dipingere. Il paesaggio che qui lascia senza fiato è un soggetto ideale del pittore portato alla narrazione: uno strapiombo in questa terra argillosa, facile preda di intemperie e venti, voragine di marrone chiaro con strisce verdi dove qualche pino è aggrappato come uno scalatore alla roccia. Farebbe pensare all’inferno di Dante se fosse passato di qua. Non siamo a chissà quale altezza, poco più di 500 metri sul livello del mare che è vicino. Il paese non dà l’impressione di essere in bilico. La strada principale, qualche slargo, le viuzze che si dipartono a volta in ripide salite altre in passaggi che sembrano vicoli ciechi. C’è una piazzetta con la Chiesa dedicata a San Luigi Gonzaga – che ci fanno i Gonzaga qui? mi sono chiesto – e la torre dell’orologio. Arrivano ciclisti a godere la sosta dopo la salita in una vegetazione che man mano assomiglia alla nostra di media montagna.
Levi si trovò ad Aliano allorché Mussolini aveva realizzato l’impresa africana “perché anche l’Italia aveva diritto ad un posto al sole”. Qualcuno di qui si unì nell’impresa. La via dell’emigrazione era stata tracciata da decenni. “Ogni nostra famiglia è spaccata dall’Atlantico, un po’ qua, un pezzo in America” dice un paesano nel film. Come poteva quella povera terra riuscire a sfamare tante bocche?
Con il successo della Guerra d’Abissinia gli fu concessa l’amnistia e interruppe il suo confino che doveva essere di tre anni. Neanche un anno rimase ma fu un’esperienza intensa.
“Viene gente?” chiedo alla ragazza che sorveglia la casa dove risiedeva lo scrittore. “Tanti, del Nord soprattutto, da Torino e Milano. Per farle capire il movimento le dico solo che al mio primo giorno di lavoro, l’agosto scorso, ho staccato trecento biglietti.”
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