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A Milano lo chiamano magüt, a Bergamo più semplicemente bòcia e il riferimento va a quella figura di cantiere addetta alle prestazioni di manovalanza: a servizio del möròt, il suo compito consiste nel mettere l’esperto costruttore in condizione di procedere celermente col lavoro.




Diverse fotografie d’autore degli anni Settanta lo ritraggono col cappellino in testa, costruito a barchetta con la carta di giornale, cazzuola e mattone tra le mani: una sorta di inno al progresso economico di quel periodo, in forte accelerazione, che ha visto impazzire l’edilizia del cemento soprattutto nei contesti urbani, ma non solo.

Cantiere edile domestico. In Valle Imagna, anni Settanta. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria dell’Identità, Fondo Emilio Moreschi

Semplificandone le funzioni, lo potremmo definire aiuto muratore. Egli agisce sempre al seguito del lavoratore specializzato, dal quale dipende in linea gerarchica, non possiede autonomia funzionale e a lui competono, per così dire, i lavori reputati meno nobili, soprattutto di fatica: fà sö la mólta e servirla nei secchi o con la carriola, lavorare a forza di braccia con zapù e badìl per aprire una trincea di scavo, laddove non arrivano i mezzi meccanici, svolgere un’infinità di mansioni su comando del suo superiore. Potrebbe essere paragonato, in campo agricolo, soprattutto nell’organizzazione sociale della cascina bergamasca, al fatüt, l’uomo di fatica disponibile per le diverse e imprevedibili incombenze. Specialmente nel passato, spesso il bòcia era fatto oggetto di derisione, al centro di scherzi anche pesanti, nell’ambito della spicciola socialità del gruppo di cantiere, con l’obiettivo di alleggerire, con una risata, un lavoro pesante.

Educazione al lavoro. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria dell’Identità, Fondo Emilio Moreschi

Penso che quella del bòcia sia una figura da rivalutare e la sua capacità di intervento è garanzia del buon funzionamento del cantiere, quando il muratore è messo in grado di dedicarsi alle opere che gli competono, ossia di manualità ad alta specializzazione. C’è chi ha fatto il manovale per tutta la vita, non accettando di assumere su di sé la responsabilità della costruzione delle opere edilizie, oppur per non avere mai trovato le sollecitazioni necessarie che lo spingessero a procedere in autonomia. Di norma, quello del bòcia riguarda il periodo di apprendistato iniziale del ragazzo avviato al mestiere. La scuola del cantiere, nel passato incominciava a dieci-dodici anni: in poco tempo avrebbe fatto dei giovinetto un muratore finito. Le competenze dovevano essere acquisite sul campo, osservando il lavoro e imitando le tecniche dei muratori anziani. Il ragazzo era stato per tempo avvisato, in famiglia, che ol mistìr mè robàl. Non doveva aspettarsi niente dai muratori che avrebbe “servito”, i quali non avevano alcun impegno esplicito nei suoi confronti, tanto meno di carattere formativo: da essi, però, l’aspirante muratore avrebbe dovuto apprendere quanto prima i segreti di un mestiere non facile e di responsabilità. Negli anni successivi, si sarebbe gradualmente dotato dei suoi attrezzi, ben riposti e conservati nella cassetta di legno (oggi di ferro o di dura plastica), con punta e mazzèta, cassöla e fratàssa, fìl a piùmp e leèl,… Ol bòcia doveva innanzitutto lavorare di forza, per trasportare pesi (secchi di malta, prisme, pietre, punteggi,…), ma anche sviluppare il senso di osservazione e comprendere velocemente le varie dinamiche del cantiere, per essere sempre pronto a soddisfare le esigenze degli altri lavoranti, senza intralciarne o rallentarne l’attività, ma prevedendone le mosse.

La costruzione della cunetta per la raccolta delle acque. Recudì, 2020.

Ieri ho fatto il bòcia, al servizio di due muratori, Mirco e Filippo, intenti a realizzare un cunettone a lato della strada per raccogliere e regolare il deflusso delle acque piovane di scolo del ripido prato soprastante. Le violente piogge dei giorni scorsi, e quelle previste nella settimana entrante, hanno messo in evidenza alcune criticità, da affrontare senza indugio. Quello del möròt è un lavoro di squadra che richiede forza e ingegno e il cantiere edilizio è un’area circoscritta entro cui si svolge l’attività costruttiva, come la realizzazione di un fabbricato o di una qualsiasi opera di ingegneria civile. A Recüdì il nostro ambito di attività aveva una superficie in circa cinquanta metri quadrati e sulla piccola strada agricola hanno preso posizione diversi macchinari: trattore, scavatore, motocarriola, betoniera,… Mirco, il capo-cantiere, ha un’ottima capacità organizzativa e dispone i compiti di ciascuno: Filippo, con il piccolo escavatore dai denti metallici, graffia la terra e predispone la trincea lineare avvalendosi, all’occorrenza, anche del martelletto pneumatico per rompere alcuni blocchi di calcestruzzo o altri affioramenti rocciosi.



A me tocca preparare la malta e trasportarla con la carriola dalla betoniera sino alla sezione di scavo, dove Mirco la distende e modella, attribuendo alla cunetta una superficie concava, che formerà il letto di deflusso delle acque meteoriche. Il bravo muratore procede, per lo più inginocchiato, con stàgia, leèl e cassöla. Con la lunga assicella scuote la malta per modellarla a suo piacimento nell’area di scavo, facendola scorrere orizzontalmente più volte consecutive, sino a compattare bene l’impasto e ad imprimere la forma voluta al piccolo alveo torrentizio. Sopra la stàgia tiene di norma appoggiato ol leèl, per non trascurare le necessarie pendenze. Con la cassöla, infine, rifinisce i bordi, raccordandoli con il terreno esistente. Man mano che avanza, Mirco deve trovare la malta pronta nella cunetta e quello è il mio compito, del bòcia, che svolgo diligentemente, ma non senza fatica. Besógna spesegà nella preparazione dell’impasto, per non lasciare Mirco senza lavoro. Faccio parte di una piccola ma efficiente catena produttiva locale, dove il rallentamento o il cattivo funzionamento di un settore crea pregiudizio a tutti gli altri. Percepisco questa responsabilità.

La betoniera

Sono addetto alla piccola betoniera mobile, trasportata sin qui sul camioncino, e provvedo a miscelare tra di loro i componenti del calcestruzzo, secondo le quantità indicate da Mirco: inserire, ad ogni carico, dù sedèi de aqua e dù sachèi de ceménto! Il muratore insiste: fàla sö gràssa e ‘mpó düra! In principio non avevo riferimenti per capire che tipo di impasto intendesse ottenere, ma dopo i primi due o tre tentativi, applicando le correzioni suggerite da Mirco, ho trovato il dosaggio corretto, con l’equivalente di circa cinquanta badilate di sabbia mista. Intanto ol bicìr ruota in continuazione e al suo interno alcune pale favoriscono il mescolamento del calcestruzzo. Dopo solo mezza giornata di lavoro sono diventato anch’io bianco e impolverato come quei sacchi di cemento che versavo nella betoniera. Ho la grinta di fare, soprattutto per fronteggiare situazione non prorogabili e per orgoglio personale, anzi possiedo ancora la forza per sostenere quel duro lavoro, ma mi manca la tecnica e, ogni volta che verso nel grosso tamburo ruotante un sacco di cemento, me ne tiro addosso un bel po’ e mi ritrovo immerso in una nuvola di polvere asfissiante. I giri del bicìr, con il leggero rumore del meccanismo elettrico che imprime la costante velocità di movimento, dà il ritmo al lavoro, che non consente eccezioni: solamente la sua rotazione a centoottanta gradi, azionata dal grosso volante guidato da chi scrive, segna il punto di svolta, per la conclusione della preparazione dell’impasto: mentre a sinistra il cestello accoglie i diversi ingredienti, girato a destra restituisce l’amalgama pronto per essere rovesciato nella carriola e trasportato.

Antica contrada Grumello dl Becco. Corna Imagna, anni Settanta. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria dell’Identità, Fondo Emilio Moreschi

Se paragono la nostra modesta cunetta alle moltissime e impareggiabili opere di valorizzazione e difesa del suolo, realizzate in valle nei tempi passati, crescono sentimenti di meraviglia e ammirazione nei confronti degli abitanti che su questi versanti, non facili alla sopravvivenza, hanno accettato di confrontarsi con una natura ostile. Essi hanno modellato, coltivato e difeso un territorio reso ospitale e idoneo alla residenza stabile. Un processo di antropizzazione diffusa durata alcuni millenni e tuttora in corso. Per realizzare questa ingegnosa e monumentale opera di arricchimento del Creato hanno contribuito uomini valorosi, lavoratori instancabili, liberi pensatori di visioni di sviluppo. Anche il piccolo bòcia dell’anno duemilaventi fa parte di questo universo di generose azioni di difesa ambientale. Il möradùrnon è altro che un contadino specializzatosi nell’arte costruttiva, mentre il bòcia è colui il quale non ha ancora completato questo passaggio. Il mito del lavoro, applicato a ogni aspetto della vita quotidiana, ha incentivato l’acquisizione di diverse manualità e la diffusione di competenze connesse alle molteplici esigenze della vita. L’educazione al lavoro avveniva già in famiglia, durante l’infanzia e, dopo la scuola mattutina, incalzavano diversi impegni il pomeriggio (fà la lègna, fà la fòia, fà ol fé,…),mentre l’apprendistato per ‘mparà ü mistìr era d’obbligo, per la mia generazione, subito dopo la terza media, a tredici o quattordici anni.

L’educazione al lavoro traeva origine dalla constatazione che solo lavorando assiduamente, e con passione, era possibile sopravvivere da queste parti e, di conseguenza, i ragazzi dovevano acquisire presto tale concetto, per contribuire così al sostentamento e allo sviluppo del loro gruppo parentale. Ogni anno una massa di giovani andava a incrementare le fila dei bòcia sui cantieri edili, nelle officine meccaniche, dentro le tornerie del legno, presso le botteghe artigianali. Catene professionali si trasmettevano nelle famiglie e nelle contrade. Ciascuno occupava il proprio posto nella società e viveva in un ambiente di lavoro specifico: il muratore sul cantiere, l’operaio in fabbrica, il boscaiolo nel bosco, il contadino nella stalla o nel campo, il prevosto in chiesa o nella canonica, il medico nell’ambulatorio. Tutti erano occupati e durante la settimana (dal dé ‘n laùr) era difficile trovare una persona fuori posto. Destava meraviglia e incredulità colui che passeggiava in paese durante la settimana: Il mia a laora? Cosè fàl ‘ntùren? Nel villaggio gh’ìa mia pòst per i pelandrù e i momenti di ozio erano veramente rari, forse solo un po’ la domenica pomeriggio.

Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria dell’Identità, Fondo Emilio Moreschi

Il mito del lavoro era talmente presente, in tutte le fasi di crescita della persona, e totalizzante, che anche gli studenti – con la scolarizzazione di massa negli anni Settanta aumentarono anche nei villaggi più periferici – non erano indenni e, durante le vacanze estive, gran parte di essi trovava un’occupazione temporanea per due o tre mesi presso le ditte artigianali della valle. È stato pure il destino di chi scrive, durante tutti i cinque anni di studi nelle scuole superiori cittadine: il richiamo dell’estate non era certo il mare, bensì il cantiere edile, con suo inconfondibile profumo di sabbia e di cemento. Da una parte si poneva l’esigenza di contribuire alle spese complessive della famiglia, comprese quelle scolastiche, ma penso che per i miei genitori prevalesse l’esigenza di sostenere, anche nei confronti de chi che stödia, una consolidata e necessaria educazione al lavoro, che per loro era soprattutto quello fisico e manuale. Negli anni Settanta l’edilizia andava a gonfie vele e le imprese erano in cerca di bòcia da inserire nei programmi di lavoro per l’estate: ancor prima che terminasse la scuola, spesso erano le stesse aziende a interpellare le famiglie, chiedendo la disponibilità degli “studenti da lavoro”. Boscaioli e contadini si trasformarono in operai e manovali/muratori, perché il nuovo modello di sviluppo si fondava sulla fabbrica e la città. È stato il crollo della ruralità.



Di norma, anziché seguire il gruppo, impegnato nella costruzione di nuovi edifici, ero assegnato a un bravo muratore, Franco, addetto alle varie rifiniture e ai piccoli interventi di manutenzione che richiedevano una solida applicazione del mestiere a tutto campo. Il suo intervento era richiesto soprattutto per la manualità sopraffina, capace di raffinati e pregevoli interventi edilizi, soprattutto sui fabbricati tradizionali. Tendenzialmente Franco lavorava da solo: tutte le mattine, con ritrovo al magazzino, salivo sul suo camioncino, prendendo posizione come lo scudiero accanto al suo cavaliere, entrambi diretti al piccolo cantiere per la sistemazione di un comignolo, la posa di una scala, il rivestimento di un muro,… Franco, dal fisico possente, era di poche parole e rispettoso del lavoro altrui: mi indicava di volta in volta le cose da fare e io le eseguivo. Conservo ancora oggi un positivo ricordo, genuino e sincero, nei suoi confronti. Nei primi giorni del mese successivo, mi recavo a casa sua per ritirare la busta paga con il cedolino: era un sacchetto semitrasparente contenente il salario in contanti, che consegnavo non senza orgoglio, ancora chiuso con una semplice graffetta, alla mamma. Ero contento che fosse lei ad aprirlo. Molti anni dopo, fu lui a costruire le scale esterne del giardino di casa e, a conclusione di quel lavoro, forse uno degli ultimi prima della sua ultima triste dipartita, mi disse soddisfatto: “Chès-ci basèi te i feré sö bé pò a’ quande che te serì ècc!”.

Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria dell’Identità, Fondo Emilio Moreschi

Ora, dopo circa quarantacinque anni di distanza da quell’esperienza, sono tornato a fare il bòcia, almeno per un giorno. I sacchi di cemento da sollevare pesano solo venticinque chili, non più cinquanta come un tempo. La betoniera è agilmente azionata con l’energia elettrica, non più col motore a scoppio, che a volte ti spaccava le braccia per farlo partire, tirando più volte e con determinazione chèl cordöl. Lo scavo in sezione ristretta è realizzato con il piccolo escavatore, non più a forza di braccia con zapù e badìl. Nonostante queste e altre agevolazioni, il lavoro del bòcia rimane quello di sempre, dello scudiero al servizio del suo cavaliere. Sono cambiate le armi, la tecnologia ha offerto nuove strumentazioni, persino il modo di vivere e di lavorare ha subito un’evoluzione epocale, ma il bòcia, ora come allora, continua a prendersi cura del muratore, delle attrezzature e del cantiere…

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Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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