Al Passo San Marco siamo arrivati in macchina, alla Casa cantoniera che, come dice la lapide, “vigilò sulle Alpi Brembane i traffici e la sicurezza della Repubblica di S. Marco”. Il passo, poco sopra, è raggiungibile per la vecchia Priula. Qui è d’obbligo una sosta e una foto: per i camminatori sul sentiero 101 da rifugio a rifugio, per i ciclisti a pedalata propria che si godono la fatica dei 13 tornanti e per quelli meno tirati sulla bike a pedalata assistita, per i motociclisti a questo e ad altri passi nella lunga cavalcata del giorno.
Diversamente si arrivava, in passato, in differenti modalità di trasporto: carro, carrozza, slitta, cavallo, mulo. Immaginate cosa poteva significare questa scalata per un esercito che aveva un bel po’ po’ di roba da trasportare essendo gli ausiliari più del doppio dei combattenti! Immaginate l’esercito dei lanzichenecchi di manzoniana memoria con “ventottomila fanti e settemila cavalli”.
Era il 1628. La guerra, spiega nei Promessi sposi, era dovuta alla contesa circa la successione del Ducato di Mantova, essendosi estinto il ramo principale e essendo due i pretendenti dei rami cadetti, uno sostenuto dalla Francia l’altro dalla Spagna. Non passarono di qua, ma sul fondo valle che da qui si vede sotto. Venivano dalla Svizzera, il paese dei Grigioni, forse attraverso il Passo del Bernina, fino a Colico, “da lì l’esercito si disponeva a calar nel milanese”.
Al Manzoni non interessa lo sforzo organizzativo che quell’evento comportava. Non interessano i calcoli del gruppo Genio nel trasferire carri e cannoni su quei ripidi pendii. Si mette nei panni della povera gente che sentendo da lontano il suono dei tamburi o delle trombe avvertivano “lo spaventoso pericolo che comportava ai paesi quando quella gente passava”. “Colico fu la prima terra che invasero que’ demoni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e sparsero in Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco”.
“Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata si spandeva subito per quello e per i circonvicini e li metteva a sacco: ciò che c’era da godere o da portar via spariva; il rimanente lo distruggevano o lo rovinavano; senza parlare delle busse, delle ferite, degli stupri.” Terrorizzavano le voci che si spandevano: “vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila… sono diavoli, sono anticristi… han dato fuoco a Primaluna… domani sono qui”. Il Manzoni arriva al suo personaggio, a Don Abbondio: “Che fare? Dove andare?“. “Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio” e lui a volerla trattenere “per discuter con lei i vari partiti da prendere”.
Sembra infierire sul povero Don Abbondio “risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti”. Eppure è il personaggio che gli riesce meglio. Che si rispecchi in lui? Nemmeno Manzoni era uomo di azione o di coraggio. Guerriero lo era, ma con la penna. La povera Enrichetta Blondel zittiva i suoi bimbi chiassosi per la voglia di muoversi e di giocare indicando lo studio: “Piano! lui sta scrivendo!”