Lasciata Bari con il disordine della periferia fatta di insediamenti, case, supermercati, capannoni e depositi, inizia la campagna dell’ulivo. Non sono gli ulivi secolari del Salento che la xylella ha ridotto a eroi d’oltretomba. Sono piantagioni recenti, segni di una vivacità imprenditoriale della Regione che cerca di inserirsi in un mercato agricolo competitivo. Il paesaggio si fa ondulato, sale lentamente e lo sguardo si allarga abbracciando successive colline di casolari sparsi, macchie di verde delimitate da muretti a secco. Gli ulivi diventano rari e il terreno è segnato a scacchiera, macchie gialle di frumento da poco raccolto, poi si fa selvatico, sassoso; affiorano tratti rocciosi che fanno pensare alla fatica dell’uomo per trarne sostentamento. Appare la maestosa Altamura che ho imparato prima a conoscere per il pane, quindi entriamo in Basilicata. Passata Matera il contrasto tra una vegetazione di media montagna su un versante e sull’altro di declivi brulli e grigi si fa evidente. L’orizzonte si allunga nel susseguirsi di rilievi arrotondati sormontati dalla nuvolaglia bianca in arrivo.
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Craco appare su un cucuzzolo. Lo si intravvede come un tronco dilaniato dal fulmine e lì rimasto a guardia del passaggio. Nella parte a strapiombo le case sono raggruppate, come gregge che si ripara dai venti inclementi, ancora intatte da sembrare un magico castello delle fiabe. Quando si arriva a ridosso e la strada si spiana ci si accorge della parte crollata e scivolata a valle, che forse dava l’impressione di essere la parte adatta ad un insediamento in espansione. Con il cedimento si è deciso, volendo preservare la comunità, di spostare il paese a valle.
E’ successo negli anni ’60. Molti se n’erano andati, altri stavano per farlo. Si prometteva lavoro giù, verso il mare, per una nuova agricoltura, nuclei industriali finanziati dallo Stato e un turismo in crescita. Si facevano sentire altre esigenze abitative. La politica dava l’assenso attraverso il governo di centro sinistra che incentivava l’edilizia popolare. Il cemento c’era e costava poco. Si soppiantò il vecchio con il nuovo, un modo di vedere ancora operante allorché si parlò di ricostruire L’Aquila all’indomani del terremoto: “meglio rifarla altrove!”. Ma già, per fortuna, si cominciava a ragionare in termini di conservazione. Capitasse oggi, Craco resterebbe viva? Così Craco, lasciata in balia del tempo e delle intemperie, si è sfasciata.
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Al nostro arrivo troviamo un custode nel recinto approntato per evitare pericolose incursioni di visitatori, in bella mostra per altri scatti fotografico, un asino. Ci guarda poi continua a cercare l’erba tra i sassi mentre in cielo volteggia un falco. In giorno di festa altri come noi arrivano, in macchina o in moto, attratti dal luogo celebre anche come set cinematografico. Riconosco la scena del film Cristo si è fermato a Eboli quando gli allora abitanti erano tutti con gli occhi puntati al cielo, osservatori dello straordinario eclisse di sole, ben riparati da un coccio di bottiglia.
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Siamo passati poi davanti alla nuova Craco Peschiera, case a due o tre piani allineate, vialetti alberati, piazza municipio e chiesa, donne al balcone per le pulizie, uomini davanti al garage aperto, bambini a giocare, qualcuno a portare il cane a spasso. Scene ordinarie della nostra vita “civile”, di domenica mattina, ma non c’è certo il fascino di una città secolare. Qualcuno di loro rimpiangerà i vecchi tempi?
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