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L’Etica di Baruch Spinoza. Lezione di Roberto Diodato

L’Etica è uno dei grandi testi filosofici, un modo di abitare la terra. Baruch Spinoza ebbe il cherem, la scomunica della comunità ebraica di Amsterdam. Si leggeva nella motivazione: “avendo ricevuto ogni giorno informazioni sulle sue orribili eresie è stato riconosciuto colpevole e per questo bandito e separato dalla comunità. Nessuno abbia più rapporto con lui né si avvicini più di quattro gomiti, o dimori sotto lo stesso tetto né legga i suoi scritti”.

Lasciata perciò l’impresa familiare cercò un nuovo mestiere per vivere, quello di levigatore di lenti. L’ottica si stava imponendo dietro la richiesta di telescopi e microscopi dopo le scoperte di Galileo e di A. van Leenwenhoek. La famiglia De Espinoza era di origine portoghese e in quanto ebrea si era dovuta convertire “a forza” al cristianesimo, a frequentare  riti e pratiche cattoliche. Una vita di duplice esilio, quello della terra e quello religioso. Ad Amsterdam, dove convivevano confessioni religiose diverse aveva ottenuto una nuova libertà e Spinoza era ben inserito nella comunità ebraica.

Di temperamento ascetico e malinconico” visse povero e solo, dedito oltre che al lavoro, in cui eccelse, alla lettura e alla scrittura. Subì anche un tentativo di assassinio: mostrava agli amici il buco nel mantello. Avverso a clamori e alla pubblicità non si scostò dalla sua via morale, rifiutando incarichi anche prestigiosi come quello della cattedra di Heidelberg che l’avrebbe “distratto dal suo studio e dalla sollecitudine per le giovani generazioni”, come disse.

Contro i pregiudizi di teologi o predicatori – gli influencer di oggi? – scrisse il Tractatus theologicus politicus, edito postumo nel 1670 e subito condannato. Proponeva un suo modo di intendere le Sacre Scritture che è una via di libertà, libertà di filosofare, essenziale anche per l’esistenza stessa dello Stato e della Religione. Si apriva con una riflessione sulla condizione umana: “Gli uomini portati a tutto credere, a causa degli incerti beni della fortuna desiderati smodatamente, fluttuano miseramente tra speranza e paura, da cui nasce la superstizione. Nel pericolo implorano l’aiuto divino”.

Spinoza visse in un’Olanda dapprima libera e felice, ricca e tollerante, con varie “sette cristiane” che professavano  una fede evangelica di carità. Era Provincie Unite, dopo l’indipendenza dalla Spagna del 1648. Spinoza aveva stretto amicizie con intellettuali e pittori, coevo di Vermeer, la sua casa vicina a quella di Rembrandt.  Era legato a Johan De Witt, Pensionario del Consiglio, capo effettivo del governo di una repubblica diretta dalle figure professionali emergenti e da intraprendenti mercanti. Poi le cose cambiarono e Spinoza, nell’anno fatale – annus horribilis 1672 –  assistette al linciaggio dei fratelli da parte del volgo sobillato dagli Orangisti che costituivano il ceto nobiliare. In quella circostanna gli amici lo trattennero a forza dall’intervenire. Sarebbe morto qualche anno dopo di tubercolosi nel 1677. Aveva 44 anni.

L’Etica era pronta per le stampe nel 1675, ma uscì postuma. Il nucleo era già in nuce nell’opera giovanile Trattato sull’emendamento dell’intelletto dove si dice: “L’esperienza mi ha insegnato che tutto quel che accade nella vita è vano e futile, e vedendo le cose di cui temevo che in sé non erano male ma che semplicemente mi agitavano, ho allora cercato se esiste qualcosa che sia il vero bene che non tradisce e capace di dare la vera gioia”.

Gli uomini sono condotti da pregiudizi che si possono riassumere in questo: “danno per certo che le cose ed essi stetti si muovono e agiscono in vista di un fine. Dio agisce, secondo loro, secondo un fine che sarebbe la propria gloria. In realtà ignorano le cause vere. Ritengono  di essere liberi in vista dell’utile ma si tratta dei propri desideri o delle loro aspirazioni. Pensano di aver trovato i mezzi ma non sanno di averli essi stessi predisposti. Anzi credono che un altro sia stato a predisporli. “Gli dei ci dirigono” dicono,  e pregando così gli dei, prediligono la loro avidità”.

Chi è il Dio di Spinoza? Ente infinito, causa libera di ogni cosa, non determinato da altro che da se stesso. Ciò che esiste è il modo suo di essere, compresa la natura – Natura naturans –  e l’uomo. Ciò che ci circonda è espressione del divino e noi ne siamo partecipi. Dio è sostanza dagli infiniti attributi, noi parte sua. Siamo espressione di due suoi attributi,  l’attributo dell’estensione per il corpo, l’attributo del pensiero per la mente. Dio è sostanza o Natura, infinitamente e liberamente dinamica, espansiva, espressiva, da noi conosciuti negli infiniti processi causali studiati nelle scienze e nelle infinite reti e comunità di menti. E’ una diversa concezione di Dio rispetto alla tradizione ebraico-cristiana. Il suo non è un Dio persona, non è un’essenza spirituale, non è il Signore della Provvidenza, anche se per Spinoza pensa, ama ed è legato a noi.

Qual è la sua idea di mente?  è l’idea di un corpo che è parte della mente di Dio. Pensiamo all’identità, una categoria tanto forte nella nostra vita. Pensiamo alla nostra foto di bambino, magari del primo giorno di scuola. Lo stesso? Io sono cresciuto, ho guadagnato conoscenze, ho allargato le amicizie, sono passato attraverso sentimenti, ho amato e perdonato, ho trattenuto ricordi e dimenticato. Per Spinoza la coscienza si accompagna alle modificazioni del corpo, di correlazioni che segnano la nostra corporeità, coscienza di movimenti e reazioni, di cose che ci circondano  e che a noi si pongono in certo modo. Ci rapportiamo e ci rappresentiamo le cose non tanto per come sono ma come esse incidono su noi: io relatore, davanti ad un pubblico particolare, seduto a questo tavolo che un fisico delle particelle considererebbe in altro modo.

C’è la vita affettiva. Gli affetti per Spinoza sono passioni e azioni. Più noi siamo causa di affetti più cresce la nostra potenza di agire; viceversa più li subiamo più la nostra potenza di agire diminuisce. Mente  e corpo sempre connessi: eliminando l’inadeguatezza della nostra conoscenza si apre la via per trasformare la passione in azione. L’odio nasce dalla tristezza, qualcosa di subito che cerchiamo di contrastare entrando in una spirale di odio.  Se però comprendiamo l’odio si disperde, si distende. La capacità di comprendere trasforma le passioni in azioni positive: “né ridere né deplorare né detestare ma comprendere”. Per conoscere la natura e dominare gli affetti è utile la concordia tra gli uomini.

L’uomo è libero e felice. Si tratta di conoscere il divino nella verità delle cose che è la scienza intuitiva. Dall’idea adeguata degli attributi di Dio si passa all’ adeguata conoscenza delle cose. La conoscenza della natura trasforma e viceversa il fare contribuisce a conoscere. Conoscere Dio è amare Dio, amor Dei intellectualis, che non è calcolo freddo, distaccato ma mente e corpo in unità nella partecipazione al divino. Questo libera, dà felicità. Questa la beatitudine: essere parte dell’infinito amore con cui Dio ama se stesso.

Bergamo Liceo Mascheroni, 9 aprile 2024

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