Stalle e case rurali, disseminate un po’ dovunque, caratterizzano gli ambienti umani delle valli orobiche. Ma c’è un altro “ingrediente” architettonico e urbanistico che ha sempre agito da elemento aggregante di relazioni e di organismi edilizi complessi: la contrada.
Una specifica organizzazione sociale…
Non è semplice cogliere la struttura del sistema insediativo tradizionale nelle valli, formatosi nel corso di un processo millenario, sostenuto dalla necessità per le famiglie di stare insieme, dato che la montagna non è fatta per vivere da soli. Il vocabolo “contrada” non indica solo il borgo o la strada, che nella toponomastica richiamano un luogo abitato, bensì esprime innanzitutto un modello di vita, una specifica organizzazione sociale dei servizi: un gruppo di famiglie che decidono di vivere vicine, da cooperanti, per soddisfare le principali necessità della sopravvivenza, aiutandosi vicendevolmente. Si collabora, ad esempio, per la captazione dell’acqua e la costruzione di fontane di uso comune, per la dotazione e la tenuta di strade cavalcatorie selciate e sicure. Ogni qualvolta si manifestano esigenze particolari che mettono in difficoltà una famiglia della contrada, le altre accorrono in aiuto, in qualche modo, come possono. Nel passato è sempre stato così. Non poteva essere altrimenti.
… di famiglie e lavoratori
Chiudo gli occhi e penso alla Valle Imagna nell’Ottocento. L’attività rurale è in pieno sviluppo, le aree campive subiscono un forte incremento, soprattutto a seguito dell’introduzione della coltivazione della patata, e numerosi versanti di monte vengono strappati al pascolo e al bosco e rimodellati mediante la costruzione di balze terrazzate con muri a secco o a mezzo di semplici cigli erbosi. Nel mio immaginario vedo una frenetica attività umana e tanto, tanto lavoro! Riconosco le speranze delle persone e la forza vitale delle famiglie. La valle è un grande cantiere e la popolazione pare simile a un grande sciame, esteso quanto il bacino dell’Imagna, con migliaia di api operaie in piena attività. L’economia cresce in modo differenziato, in relazione alle diverse influenze sociali e ambientali. Mi lascio catturare dall’incessante attività dei pastori e dei bergamini, distribuiti nei pascoli di monte tra Brumano e Fuipiano, ma anche nelle aree dell’alpeggio di Locatello e Corna. Osservo al lavoro vangatori e segatori, vinaioli e agricoltori nei villaggi di mezza costa distribuiti sul versante orografico sinistro della valle, da Rota sino a raggiungere Berbenno e, oltre ancora, Capizzone. Lungo il corso del torrente Imagna di fondovalle e dei suoi affluenti principali, mi sembra di sentire il battito del grosso martello del maglio sull’incudine, il rumore costante della grande ruota di pietra che sta macinando le granaglie, lo scrosciare dell’acqua della seriöla che corre verso la ruota idraulica del tornio. E poi voci, urla da richiamo, rumori di attività, muggiti e belati, canti popolari improvvisati qua e là da gruppi di persone o da singoli individui intenti al loro lavoro. Una cornice di azioni assai articolata, ricca di elementi che ne caratterizzano il paesaggio sensoriale: sonoro, visivo, olfattivo e di sapori. Un pullulare di presenze e di attività a vari livelli, agricolo e forestale, pastorale e artigianale, commerciale, che denota la capacità delle popolazioni locali di adattarsi ai diversi contesti e alle circostanze mutevoli. Ah, dimenticavo: se alzo lo sguardo verso l’alto, tra il Pertüs e il Linzone, e mi introduco in quelle antiche case, ecco ripresentarsi dinanzi carri e cavalli di coraggiosi commercianti ambulanti che da Costa, il piccolo villaggio sul monte, scendevano regolarmente in pianura, “battevano” le cascine e i paesi della Bassa proponendo i loro prodotti, molti dei quali reperiti in valle. Eccoli all’opera i grandi camminatori di un tempo: formagiàcc e botonàcc, ciocolaté e palé.
Umanizzare la natura circostante
Gli occhi sono sempre chiusi e navigo nei miei pensieri, avvalendomi delle conoscenze acquisite nel tempo, disegnando sullo schermo nero che ho davanti paesaggi e situazioni. Affiorano emozioni e ricordo. Rivedo Canito, la contrada antica che mi ha accolto nei primi anni di vita, che è stata quella di mio padre, ma prima ancora del nonno, del bisnonno e del trisavolo, ma anche delle persone e delle famiglie della mia infanzia. Mi sembra di scorgere, in lontananza, ol Polénte e la sua Polentìna, ol Barbarósa, la Ghéta e ol so Carsàna, ol Belòte e la Piuchì, ol Carlùcio e ol Jàcom. Di quest’ultimo, fratello del nonno, mi pare di udire ancora la voce, quando dalla mulattiera sottostante la nostra abitazione, mentre si recava a guarnà i àche, en de la stàla fò sö la Còsta, mi chiamava a gran voce: “Endèm con mé, Löegèto!…”. Appena fuori dall’insediamento rurale, ecco, nelle vicinanze, dapprima una cerchia di orti e campi; a seguire prati e pascoli con le loro modeste stalle e fienili, per raggiungere infine i boschi, tenuti il più lontano possibile dall’abitato. Ciascuna di queste località ha il suo nome, anche la particella più piccola, perché l’uomo ha saputo umanizzare la natura circostante, attribuendogli la sua distintiva connotazione. Canito aveva all’intorno le sue aree di influenza che gravitavano attorno all’antica contrada e garantivano la sopravvivenza delle famiglie del posto. Tutto aveva un senso e l’organizzazione capillare degli spazi rurali rispondeva a precise esigenze funzionali. Serpentelli lastricati di pietra, oppure più semplicemente sentieri delimitati da sìse de cornàl o de nesöla, collegano i diversi ambienti con molta discrezione, stando sempre al margine, mai al centro. Un po’ come sono sempre state le persone da queste parti, schive, di poche parole, ma di tanti fatti, immancabilmente prudenti e umili, soprattutto per non sciupare o disperdere risorse importanti. I colori autunnali dei campetti di mais subentrano al verde intenso dell’erba matura in tarda primavera e alle rigogliose sée di patate, il tutto alternato, qua e là, da roccaforti di pietra viva, come robusti castelli, quali sono le antiche contrade, con case e stalle avvinghiate le une a ridosso delle altre, centri di vita, ambiti propulsori di attività e di relazioni sociali, luoghi privilegiati per la vita e il lavoro delle persone. La valle è disseminata di contrade, ben distinguibili le une dalle altre, separate da spazi rurali ordinati, colorati e funzionali. I villaggi sono riconoscibili dai campanili, che s’innalzano come tante bandiere. Una valle di contrade, giunte sino a noi dal Medioevo.
Contrade abbandonate a loro stesse
Nel sogno tutto è ben definito: le famiglie, le contrade, i villaggi, le attività, le colture agrarie, gli allevamenti, le stalle e le case. Poi mi sveglio, apro gli occhi, e tutto mi si presenta confuso: gli antichi insediamenti sono spesso irriconoscibili, abbandonati a loro stessi oppure radicalmente trasformati in edifici moderni. Respiro il disordine e provo fastidio. La realtà è diversa dal sogno e il paesaggio è radicalmente trasformato. Di più: la realtà mi impone di sviluppare riflessioni attuali e concrete. D’accordo: contrade e paesi hanno una loro conformazione razionale. La maggior parte di cà e stalle tradizionali, distribuite tra i cinquecento e i mille metri di altitudine, occupa ampie aree di territorio montano assai antropizzato. Il complesso di cà e stalle di un aggregato rurale definisce l’ambito della contrada, sede di una o più famiglie estese e luogo privilegiato per la loro espressione ed espansione, dove si tramandavano le conoscenze e le esperienze professionali di un gruppo sociale; all’intorno ci sono le aree ad essa pertinenti. L’insieme di più contrade, quindi delle diverse famiglie, compone la dimensione sociale del villaggio, che si presenta non come l’espansione di un centro, bensì quale addizione di diversi nuclei rurali, organizzatisi sotto l’egida della medesima autorità religiosa e civile. La contrada Roncaglia, ad esempio, antico insediamento di contadini e bergamini, risale al periodo tardo medioevale e vanta di avere dato i natali agli avi della famiglia Roncalli (di Papa Giovanni XXIII). Ogni contrada ha la sua storia, che coincide con quella delle famiglie che l’hanno vissuta. Così i villaggi sono l’insieme delle varie storie delle contrade e dei rispettivi gruppi parentali. Nei secoli l’edilizia abitativa e per le attività produttive è progredita a passi piccoli, lenti, costanti. Cà e contrade si sono formate mediante aggiunte di modesti corpi di fabbrica, attribuendo all’edificato una dimensione assai articolata e in continua progressione. Lo sviluppo edilizio delle cà iniziali riflette l’idea di progresso delle famiglie residenti e determina la nascita di un organismo abitativo e produttivo complesso: la contrada. Gli insediamenti più antichi sono sempre stati caratterizzati sia dalla presenza di uno specifico gruppo parentale, che dalla prevalenza di una tradizione economica e professionale. A Canito i carbonai e boscaioli, a Regorda i muratori e pecaprìde, alla Roncaglia i bergamini,… La cà può essere considerata una particolare evoluzione della stalla, mentre la contrada rappresenta l’espansione dell’antica cà, il prodotto delle relazioni sociali e degli scambi matrimoniali del gruppo parentale, che rafforza la sua presenza sul territorio attraverso il lavoro e si amplia. La contrada è espressione matura della comunità e fonda l’esistenza sui legami affettivi e sui rapporti di vicinato.
Pietre senz’anima
Non solo case e stalle di pietra, ma una serie infinita di manufatti definisce l’ambiente umano della Valle Imagna e i caratteri degli insediamenti rurali. Infrastrutture agrarie di monte (terrazzamenti agrari, muri a secco, fontane, caselli,…), viarie (sentieri, mulattiere, tribuline,…) e sociali (piazzette civili e religiose, chiesette, torri municipali, oratori, corti, pozzi,…) caratterizzano le contrade, le rispettive aree rurali di pertinenza e i principali spazi della socialità nel paese. Contesto naturale e ambiente umano fanno un tutt’uno e contribuiscono a definire le rigorose geometrie di manufatti sobri e funzionali, imponenti e nello stesso tempo espressione dei luoghi attraverso la semplicità di forme e materiali. Le antiche contrade di pietra sfidano il tempo vorace. Case, stalle e mulattiere ancora ci parlano della gente, del lavoro, della civiltà e dell’idea di progresso. Quanti significati! Gli edifici restano al loro posto, mentre le persone passano. Si assomigliano nel carattere, ma hanno tempi diversi, le case di pietra e chi ci vive dentro. Famiglie con tanti bambini e anziani sono andate via, portandosi dietro attrezzi e animali, canti e campanacci, sapori e atmosfere, ma anche un magone in gola, perché sapevano di lasciare alle spalle il mondo dell’infanzia, relazioni concrete e solidali, una vita dura ma condivisa, la grinta di fare e la necessità di dovercela fare! Non a caso quella socialità oggi è tornata ad essere un modello di riferimento per relazioni e progetti di buon vicinato. Segni di una storia che si rigenera… Ma bastano gli edifici per fare una contrada? Forse sì, almeno dal punto di vista architettonico e urbanistico, ma per quanto concerne invece il significato e i valori che rappresenta, la contrada è spesso rifiutata per scarsa “modernità”. Attualmente sembrano prevalere i beni individuali su quelli collettivi, le famiglie nucleari rispetto a quelle estese, le case singole, isolate, appartate, come sono le famiglie, anziché quelle inserite nella dimensione comunitaria di contrada. Allora le pietre rimangono senza anima, quando le persone non sanno più sentire il loro respiro e il loro “canto”, come titolava una rassegna musicale che alcuni anni fa aveva contribuito a riportare l’attenzione e l’interesse intorno alle antiche case di sempre, fuori dal tempo.
Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna