Biondi immobiliare

Molte stalle e diversi casèi, specialmente nei periodi più freddi e nevosi dell’anno, quando cioè gli uomini della contrada erano liberi dal lavoro e gli estranei difficilmente si addentravano nei contesti rurali della montagna, si trasformavano in luoghi dove impiantare i làmbech, ben nascosti da sguardi indiscreti. Il pericolo poteva essere in agguato dovunque. Gh’ìa sémpre ü quàch che te ülìa bé e che poteva segnalare all’autorità – ai carabinieri, non certo al Sindaco – l’infrazione delle norme vigenti in materia di spiriti. La produzione della grappa – la sgnàpa per gli Alpini – era un’attività radicata nel contesto della bassa e media montagna orobica e l’alambicco è forse il più antico di tutti gli strumenti destinati alla distillazione. Anche in Valle Imagna tale pratica era assai diffusa, soprattutto sul versante orografico sinistro, gran parte del quale terrazzato e coltivato a vitigni: quassù si distillavano soprattutto enàsse, risultante dalla torchiatura dell’uva, ma anche diversa frutta, come mele, prugne, pere e maràsche, eccedente il fabbisogno alimentare della famiglia durante l’inverno. Basta leggere le relazioni dei periti agrimensori dell’Ottocento, per comprendere la diffusione dei vitigni sulle balze campive a ridosso dell’Imagna, i quali subirono una forte accelerazione con l’introduzione estensiva della coltivazione della patata.

Distillare nelle ore notturne

Sin verso la metà del secolo scorso, pochi erano i possessori di alambicchi e gli anziani del villaggio ricordano che diversi piccoli contadini ricorrevano al prestito del prezioso strumento, anche fuori paese, e, quale corrispettivo, il proprietario del làmbech riceveva un quantitativo di grappa commisurato alla quantità di litri prodotti. Empó a la ölta, però, töcc e gli à raspàt. In molti casi la distillazione veniva effettuata la notte, per garantirsi la protezione da sguardi indiscreti e per la pura de fàs ciapà. Il buio nascondeva anche il fumo del braciere e, fò per chèle alète, anche l’odore acre del distillato si perdeva lì intorno. Ogni famiglia aveva messo a punto una propria organizzazione. In molti casi i vàa fò per i canài a fà la gràpa, sia per la comodità nel rifornimento dell’acqua che per ottenere maggior sicurezza. La neve, poi, avrebbe in parte assorbito l’inconfondibile odore emanato dai fumi prodotti durante la cottura. Lungo il percorso pedonale che, dalla contrada Cà Gavaggio, conduce alla località Prà Péz, sono ancora visibili, in prossimità dei diversi ruscelli d’acqua, alcune postazioni utilizzate nel passato per la distillazione, costituite da modesti pianori, delimitati da muretti in pietra a secco, entro i quali veniva impiantato l’alambicco sopra il braciere. A Canito, la contrada della mia famiglia, il nonno Luigi impiantava l’alambicco lontano dall’abitazione, nella piccola proprietà terrazzata situata Sóta ol Póz, in una zona difficilmente raggiungibile e in prossimità di un ruscello. Ol Giösèp de Mansenài distillava invece nel canale vicino alla sua stalla alle Patèrne, mentre ol Polénte en dol sò casèl sö la Còrna Piàna.

Relazione vivace dell’uomo con il territorio

Una parte della produzione era destinata al consumo domestico, mentre la rimanente alla vendita: passavano, di casa in casa, nel periodo invernale, de furistìr, ossia uomini dalla provenienza sconosciuta, che ritiravano anche pochi litri di grappa dai contadini, versandoli nel contenitore ben mascherato nello zaino. Seppure senza alcuna ambizione commerciale, quella della produzione della grappa è una tradizione che si tramanda e ripete ancora oggi – come quella dell’uccisione del maiale – e richiama alla luce una relazione vivace dell’uomo con il suo territorio e lo sfruttamento infinitesimale delle sue risorse. Vecchi alambicchi di rame a gennaio e febbraio tornano a funzionare e, ora come allora, la frutta raccolta in estate e autunno, conservata in grossi bidoni, viene cotta ad elevate temperature e distillata. Una tradizione ben radicata sulle nostre montagne, che nasce dalla capacità – un tempo necessità – dei montanari di sfruttare al meglio i prodotti della terra. Un esercito silenzioso, perché sono veramente tanti, ma produrre grappa in casa è ancora un’azione illegale. Lo conferma un recente decreto ministeriale (DM n. 153 del 2001) e si rischia la gabbia. Lo Stato è sempre a caccia di soldi e intende riscuotere un’imposta sulla produzione dei superalcolici: “Chiunque fabbrica clandestinamente alcol o bevande alcoliche è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa dal doppio al decuplo dell’imposta evasa, non inferiore in ogni caso a 15 milioni di lire”. Non è poco. Dunque prudenza e cautela. In sostanza ecco il messaggio finale: puoi distillare, ma prima devi pagare!

Una procedura che richiede pazienza

Ancora oggi la frutta andata a male, troppo matura o rovinata dalla grandine, viene fatta fermentare e quindi distillata, per ottenere acquavite casalinga, ottima come digestivo a fine pasto, correzione del caffè e per riscaldarsi nei rigori dell’inverno. Un tempo, i lavoratori del bosco, dopo averne bevuto un bicchierino la mattina presto, prima di uscire di casa, versavano le ultime gocce rimaste sul palmo delle mani e le sfregavano sulle tempie, come per riscaldare il fisico, in vista dei faticosi lavori. Ol Pino (i nomi di seguito riportati nel racconto sono casuali), all’esterno del garage della sua nuova abitazione, nel colderöl de ram, regalatogli dallo zio Frédo, collocato sopra un braciere di legna, ha inserito cinquanta litri di enàsse: dopo averlo chiuso col suo coperchio, anch’esso di rame, lo ha sigillato, utilizzando un impasto di crusca, farina di frumento e acqua. Ol coèrcc e l’gh’à mia da sorà – mi dice – perché altrimenti il vapore si disperde nell’aria e… la grapa la sìvla!Un tempo si utilizzava anche la cenere mista a calcina, oppure la boàssa cólda de l’vàche, raccolta con d’öna cassölèra, bene spalmata attorno alla giuntura esterna del coperchio della culdìra. La cottura va eseguita con cura, assicurando sempre un fuoco costante. Non serve la fretta. È un processo che richiede pazienza e tempo a disposizione. Per alcuni giorni Pino è sempre lì, attorno al suo colderöl. Non lo abbandona per un attimo ed è impegnato in una serie di piccole ma non trascurabili azioni: tiene viva la fiamma del braciere con legnetti di piccole dimensioni, aggiunge in continuazione blocchi di neve nel bidone della serpentina per mantenere fredda l’acqua, misura col pruì la gradazione alcolica della flèm, tiene controllato che ol coèrcc rimanga ben chiuso e sigillato. Inoltre, per evitare che i fumi e gli odori invadano le case nella contrada sottostante, ha innalzato un grosso tubo verso il cielo, che da giorni fuma come un camino. Una bandiera. Attraverso la pöpa, il condotto che dalla sommità del coperchio della caldaia giunge alla serpentina, è convogliato il vapore derivante dalla cottura delle vinacce. Nella serpentina, poi, un semplice tubo a spirale, anch’esso in rame, posto in un grosso contenitore colmo d’acqua, i vapori si condensano e fuoriescono sotto forma di acquavite. Per tenere sempre fresca l’acqua a contatto con la serpentina, viene rimboccata con grossi blocchi di neve. Si evita, in questo modo, di utilizzare l’acqua corrente del rubinetto. Tutto è economia.

Del distillato si tiene solamente il cuore

La flèm, ossia il distillato della prima còcia, l’è trobia, torbida e a bassa gradazione. Con la sua carica di cinquanta chili di vinacce, Pino ha ricavato dieci litri di flèm che, a procedimento concluso, dopo il secondo processo di distillazione, produrrà cinque litri di grappa già raffinata. In realtà, la seconda còcia, effettuata riversando nella caldaia, ben ripulita da tutti i residui di vinacce, la flèm ricavata dalla prima distillazione, permette di raffinare ulteriormente la grappa, aumentando il tasso alcolico e rendendo il prodotto trasparente e limpido. Adamantino. Il primo pisì che fuoriesce dalla serpentina, durante la distillazione della grappa, ha una elevata gradazione e può superare anche i novanta gradi, mentre a seguire il tasso alcolico diminuisce, sino ad ottenere un distillato finito di circa 45-50 gradi. Del distillato si tiene solamente il cuore, mentre la testa e la coda della flèm vengono buttate. Il primo liquido a uscire dalla serpentina è altamente alcolico e tossico, alcool metilico allo stato puro, e lo si sente bene dal profumo: versato sul fuoco si ottiene un’improvvisa fiammata. La lüs söbéto. Procedendo con la bollitura, la gradazione alcolica si abbassa e si ottiene la vera grappa, l’acquavite, che esce dalla serpentina con una temperatura di circa quindici gradi centigradi. Nella fase della seconda distillazione, alcuni produttori aggiungono pure erbe aromatiche, già preparate da tempo, essiccate e sminuzzate, tali da aromatizzare l’acquavite: salvia, mintù, doèrnes, anche la giassàna (trasportata dalla Svizzera dai nostri emigranti), le cui radici hanno proprietà tonico-digestive.

Le prove gustative nella distillazione della grappa

La distillazione della grappa è un’antica pratica di libertà, un rito che, ancora oggi, si rinnova ogni anno in molte famiglie rurali del villaggio. Messe da parte, ormai, le paure quasi fisiologiche dei tempi difficili – anche se permangono ancora, quale antico retaggio, alcuni comportamenti prudenziali – la postazione di un alambicco funzionante diventa un luogo di incontro, meta di amici e conoscenti, anche “esperti” assaggiatori: töcc i dìs la sò, analizzando i vari aspetti sensoriali, per cogliere profumo, sapore, colore e limpidezza. Si confrontano così memorie gustative che traggono origine da esperienze differenti (ad esempio in relazione al tipo di uva o di vinacce utilizzate e al loro grado di torchiatura,…), accomunate però dalla medesima tradizione. Ol Tata, sentàt dó denàcc al làmbech, accantonate le due stampelle, rievoca i suoi fermenti giovanili, quando – ormai molti inverni or sono – distillava guardingo scundìt Sóta ol Póz, mentre Bèrto confronta la grappa di vinacce del Pino con quella de brögne da lui prodotta; Rico, invece, con la sua lunga barba che cela la personalità dietro un atteggiamento sornione e tranquillo, con fare bonario sorride e dispensa conferme ai disquisitori. Pino, infine, quando gli chiedo di poter scattare alcune fotografie, mi chiede di attendere: “Spécia, che ‘ndó fò a tö ol capèl de Alpino!…”. Come se la grappa nostrana richiamasse anche gli Alpini, oltre che lo stile di vita dei montanari. Poi, fiero di una tradizione, ha insistito affinché anche ol sò Tata lo portasse. Però, prima di congedarmi, mi richiama all’ordine: “Mètele sö mia per i giornài, nèh!...


Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna


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Autore

Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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