Siamo onesti. Da una parte Bergamo e le sue istituzioni vivono un momento particolarmente felice di attenzione e importanza al di fuori delle proprie mura. Dall’altra per chi ci vive, i bergamaschi, tutto scorre come prima, a parte qualche coda in più per visitare attrazioni più o meno rilevanti (più d’intrattenimento, meno di cultura).
Alla fin fine la Corsarola affollatissima a prova di sardina, o i centri di ritrovo commerciale e paesaggistico stipati di turisti (?) hanno creato sì maggiore movimento e incremento statistico, ma a leccarsi i baffi e riempirsi di soldini sono stati ristoratori e commercianti. E che non si lamentino più per favore. Sempre loro a guadagnarci all’ombra ben protetta e costruita della (cosiddetta) cultura.
Certo anche qualche biglietto in più venduto per i musei, ma code di attrazione culturale si son viste solo per l’ingresso alla funicolare o per gli effetti speciali di luci colorate e stroboscopiche più adatte a padiglioni fieristici delle vanità che non ad una città ambiziosa di definirsi d’arte. Finora insomma la capitale della cultura è stata una pallida imitazione del vero turismo culturale che, peraltro, imperversa nella nostra bella penisola laddove la parola cultura ha un senso reale e visibilmente ineludibile .
Del resto se pensiamo – a parte la pagliacciata d’apertura con migliaia di comparse (dilettanti a costo zero) che però è costata l’incredibile cifra di 2 milioni di euro e chissà dove saranno finiti qualcuno mai ce lo dicesse – che l’evento culturale topico a caratterizzare Bergamo capitale culturale 2023, atteso e strombazzato dai capoccia locali che contano, sarà l’opera lirica sulla Carrà la dice lunga su tutto.
Sul provincialismo che caratterizza i nostri politici pronti a trasformare numeri appena sopra la media in veri e propri primati di superiorità e di raggiunta visibilità: presenze e prenotazioni appena sopra la norma degli anni più recenti – covid escluso ovviamente – , favoriti dalla capitale (questa si) del low cost aereo; pernottamenti che, quando ci sono, raramente superano l’unità; biglietti staccati nei teatri e nei musei più o meno nella norma degli eventi di rilievo (del resto i posti nei teatri quelli sono e quelli erano 50 anni fa; anzi prima qualche centinaio in più, non vigendo norme di sicurezza).
Sul mostrare, da parte di media e direttori artistici locali, più la virtualità che la realtà: suonandosela e cantandosela fra di loro in merito alla qualità, alla eccezionalità e alla genialità dei prodotti offerti che, quasi mai, esulano dalle patrie mura nonostante s’invitino, lautamente e lussuosamente serviti, giornalisti nazionali e non che, of course, un articolo di (critica?) bene o male poi te lo pubblicano .
Insomma come non pensare che se non fosse stato per la capitale del covid nè Bergamo (ci aveva già provato, bocciata, una decina d’anni fa) nè tantomeno Brescia avrebbero ottenuto di diritto tale riconoscimento? Pur avendone la possibilità sia ben chiaro. Ma con ambizioni diverse e una visione veramente culturale, distanti dal qualificare una diva televisiva a emblema capitale. Lo diciamo in primis al sindaco Gori che, come ormai tutti sanno a Bergamo, si è battuto in prima persona per imporre questo musica” anche a coloro ( pochi) che osavano storcere il naso.
E allora cosa ci dobbiamo aspettare?
Infatti anche semplici città capoluogo a noi limitrofe (senza scomodare capitali vere come Ravenna, Agrigento, Matera) come Lecco, Mantova, Como hanno fatto registrare in questi stessi periodi in cui Bergamo e Brescia si fregiano di tanto blasone, numeri e iniziative turistico-culturali di livello anche di molto superiore ai nostri.
La stessa cosa può dirsi per la musica al teatro Donizetti. Sono 10 anni che il sindaco ha investito su un festival lirico all’insegna della fenomenologia videocratica (esattamente come con la Carrà) affidandolo ad un non musicista ma assolutamente in linea con il suo pensiero: PRIMO, audience qualunque sia, SECONDO, ventata televisiva trasgressiva per togliere la polvere dal melodramma ottocentesco che impolverato non era, TERZO, la quantità di lustrini e pailettes che soddisfi i gusti di tutti garanzia di successo e consenso immediato, ULTIMO, la qualità. L’opposto di un impegno culturale che implica progettualità coerente e soprattutto a medio termine, basata su una visione graduale e progressiva di evoluzione compatibile tra spettacolarità e pensiero. Una crescita che purtroppo non paga nell’immediato, rischiando anche dissenso, ma che forma una coscienza e una consapevolezza di bisogno di bellezza e cultura in progress. Dieci anni con il valore aggiunto di un retrogusto amaro: decine di milioni di euro sacrificati sull’effimero edonistico (la figura di Donizetti non ne è uscitamodificata, aggiornata, rivelata nè a livello nazionale nè tantomeno a livello internazionale) costruito sull’ambizione e l’autoreferenzialità degli stessi operatori responsabili.
E non siamo solo noi a dirlo. Ci sono risultati inoppugnabili e neutrali (finalmente). Citeremo solo 2 ma emblematici esempi: uno italiano l’altro europeo .
Primo: Concorso Nazionale Art Bonus 2023 cui ovviamente ha partecipato anche la Fondazione Donizetti sicura di vincere a mani basse, considerata l’adesione di seconde linee (non da teatro alla Scala per intenderci) come l’International Salieri Circus (proprio così Circo non teatro: unione tra circo contemporaneo e musica classica), Award di Legnago (Verona) o il Museo di storia del Mediterraneo di Livorno. I progetti ammessi sono stati 269, 12 dei quali hanno partecipato alla votazione finale su Facebook e Instagram svoltasi a fine marzo. Una iniziativa del Ministero della Cultura e di Ales con la collaborazione di Promo Pa Fondazione con lo scopo di sensibilizzare i cittadini dei vari territori a sostenere le istituzioni culturali .
Sapete chi ha vinto? Il Circus di Legnago lasciando a Bergamo la piazza d’onore per la categoria Spettacoli dal vivo. Mentre nella categoria Beni e luoghi della cultura si è imposto il Museo di Livorno.
Passiamo oltre, secondo esempio. Arriva da Bruxelles (!) al celebre Teatro La Monnaie che ha messo in scena un grande spettacolo addirittura con la tetralogia Tudor di Donizetti: successo trionfale. Dov’erano i nostri media locali a rendercene conto (cronaca spicciola)? Dov’era la Fondazione Donizetti a rendersene conto?
Per la cronaca (lo diciamo noi) si è trattato di 2 serate di 3 ore (21, 23 marzo con repliche fino al 16 aprile) con al centro un grande personaggio: Elisabetta I (Tudor appunto) d’Inghilterra. Mix di canto, recitazione, danza sulle 4 opere donizettiane Elisabetta al castello di Kenilworth, Anna Bolena, Maria Stuarda, Roberto Devereux. C’è bisogno di dirlo? Contribuirà molto più uno spettacolo di questo livello a far parlare il mondo di Donizetti (con relativo aggiornamento attuale) che non dieci anni di Donizetti Opera Festival alla costante ricerca dell’originalità perduta. Come dire: Donizetti travestito a Bergamo, ritrovato a Bruxelles .