Il calcio in Italia non è soltanto un gioco. È un movimento economico multimiliardario, è fonte di isteria collettiva quando si vincono i campionati e le coppe, e pure (anzi, soprattutto) quando si perdono. Se lo giocano i maschi. Se lo giocano le donne può essere qualcos’altro, più simile al divertimento. Senza perdere di vista la concretezza, però: giocando per piacere, si può arrivare in Serie A e stare nei piani alti della classifica. A Mozzanica, nella bassa bergamasca, è così. La squadra locale è stata promossa in Serie A nel 2010 e poi ha sempre fatto stagioni positive – attualmente è 4ª (come si può vedere sul sito web della società).
Abbiamo intervistato la presidentessa, Ilaria Sarsilli (al centro nella foto), che prima di sedersi alla scrivania dirigenziale è stata giocatrice. «Erano gli anni intorno al 2000» ricorda «con un’amica abbiamo cominciato a giocare a calcio a 7. Eravamo brave, vincevamo campionati. Così mio padre, piccolo imprenditore, si è appassionato e ha preso in mano la squadra del paese quando era in Serie D. In seguito abbiamo vinto la Coppa Lombardia, siamo arrivate in semifinale in Coppa Italia, e poi in Serie A dove stiamo tuttora. Ai vertici». Una dimensione agonistica che è accessibile anche per società di provincia, spiega la presidentessa: «Davanti a noi in classifica c’è il Tavagnacco, squadra di un paesino friulano forse più piccolo di Mozzanica. Eppure sono arrivate a disputare la Champions femminile e a vincere 2 Coppe Italia». Tutto ciò con un bilancio economico risicatissimo rispetto al calcio maschile, e anche rispetto al calcio femminile di altre nazioni: «Abbiamo avuto una giocatrice che ha ottenuto in ingaggio in Francia, in Serie B» dice Sarsilli «però le pagavano uno stipendio e le davano un appartamento. Lei ci ha chiesto se era il caso che andasse, ma come dirle di no? Certe occasioni vanno prese, noi non siamo nella condizione di fare concorrenza. Da noi con 100˙000 euro l’anno si può sostenere un buon campionato di A, con 300˙000 euro si sta in alta classifica. Adesso si stanno interessando anche le società maschili e infatti la Juventus, destinando una piccolissima percentuale alla società femminile, sta vincendo il campionato. Noi siamo legate all’Atalanta, anche se per loro non è un impegno economico».
Quello dei soldi è un tasto dolente. Se in cassa ce ne fossero di più, si potrebbero sostenere più ambizioni. Ma anche in un territorio come quello bergamasco, economicamente più ricco rispetto ad altre zone d’Italia, gli sponsor latitano. Spiega Sarsilli: «I nostri costi sono infinitamente minori rispetto al calcio maschile. Con un investimento limitato un’azienda potrebbe avere visibilità da Serie A. Noi allo stadio portiamo sempre almeno 200 spettatori, che diventano 500 per il derby con il Brescia. Quando abbiamo ospitato la Juventus, c’erano 1000 persone sugli spalti. Abbiamo anche le squadre giovanili, categorie esordienti, allieve e primavera. Ma in questo caso ci scontriamo un po’ con la cultura dei genitori che pensano al calcio come uno sport poco adatto per le figlie. E invece è molto educativo, insegna ad agire in squadra, a stare all’aria aperta. Costa anche meno di altre attività». A Mozzanica hanno una speranza, nemmeno troppo nascosta: diventare professioniste. «Cambierebbero molte cose» dice la presidentessa «adesso ci alleniamo alle 6 di sera perché prima le ragazze lavorano – dopo 8 ore vengono a farsi altre 2 ore di corse e pallone. Lo scopo non può essere solo la vittoria, perché dietro c’è molto di più. Ma siccome i risultati li otteniamo, c’è un po’ la curiosità di vedere come sarebbe se… be’, se potessimo almeno provarci con più intensità. Per vedere l’effetto che fa». Come in quella canzone di Luciano Ligabue, «Una vita da mediano»: lì, sempre lì. E vincere, casomai, i Mondiali.