Il ciclismo perde un fuoriclasse. Bergamo piange una leggenda. Felice Gimondi (originario di Sedrina, di casa nel Castello di Paladina) è morto il 16 agosto sulla spiaggia di Giardini Naxos, in Sicilia. Un infarto. Aveva 76 anni. Ha speso la sua splendida carriera nella titanica sfida di contrastare il dominio autocratico del “Cannibale” Merckx, di tre anni più giovane e dotato di una forza ciclistica che “spazza la pianura e crea onde che scavalcano le dighe”. Il padre di Felice si chiamava Mosè. Faceva il camionista, con un passato di boscaiolo in Brasile. La mamma Angela è stata la prima postina di Sedrina. Se le sue pedalate furono un dono di Dio, la tenacia, lo spirito di sacrificio, la fede, il senso per l’essenziale e l’umiltà furono il pane quotidiano che i suoi genitori mettevano in tavola.
Dopo Coppi e Bartali, il dualismo nel ciclismo fu rappresentato da Gimondi (il terrestre) e Merckx (il marziano). Si scontrarono la prima volta (ancora dilettanti) durante una gara di preparazione ai Campionati del mondo su strada UCI del 1963 a Ronse, in Belgio. A 90 chilometri dal traguardo Gimondi sferra un attacco con altri sei ciclisti. Pian piano il gruppo si sfoltisce, finché il ventunenne italiano si ritrova da solo con un ragazzo della zona. Ormai vicino alla meta, Gimondi crede forse di avere la vittoria in pugno, ma all’improvviso lo sconosciuto avversario ingrana una marcia in più, fa il suo affondo tagliando il traguardo in solitaria. Lo sconosciuto era Merckx. Nel 1970, durante un’intervista su TeleMarche, una rete francese, Felice disse: “Ritengo che Merckx mi abbia preparato alla vita, che m iabbia insegnato che non tutto è facile”. L’intervistatore, lo punzecchiò: “E cioè? Battendola?” – “Sì”. “Credetemi, – confidò poi molti anni dopo in un colloquio con la Gazzetta – l’ho conosciuto bene io [Merckx]: mi ha fatto patire le pene dell’inferno. Per me resta il più grande perché fu protagonista di un’attività a livelli eccezionali per un intero decennio. Faceva tutto, tutto l’anno, tutto sempre con un unico obiettivo: vincere. Strada, classiche, grandi Giri, salite, volate. Sei Giorni, anche il ciclocross. Pure i circuiti a ingaggio si voleva prendere...”.
Gimondi vinse l’ultimo dei sui tre Giri d’Italia nel 1976, a 33 anni. La “Gazzetta” titolò “Miracolo a Milano”, in omaggio all’omonimo film neorelista di Vittorio De Sica. Fu il perfetto canto del cigno per un corridore “che aveva rinvigorito il ciclismo italiano” (Colin O’Brien) conquistando tutto ciò che c’era da conquistare, anche il titolo Mondiale di Barcellona nel 1973, al Circuito del Montjuic (quattordici chilometri e mezzo da percorrere 17 volte). Detiene ancora oggi il record del maggior numero di presenze sul podio del Giro d’Italia. Nove in tutto: due secondi posti e quattro terzi posti, oltre a tre vittorie. È uno dei sette campioni ad avere vinto tutt’e tre i grandi giri a tappe, insieme con Anquetil, Merckx, Hinault, Contador, Nibali e Froome. Felice Gimondi fa parte del club esclusivo di chi ha conquistato i 3 Grandi Giri, almeno un Mondiale e almeno una Classica Monumento. Una tessera esclusiva che la storia del ciclismo ha rilasciato soltanto a Eddy Merckx e Bernard Hinault.
I tifosi lo amavano per la pazienza e la prontezza con le quali, qualche volta, riusciva a trovare il modo di battere l’imbattibile. Al Giro d’Italia, Felice Gimondi sconfisse Merckx due volte, distanziandolo in classifica generale di quasi 12 minuti nel 1967 e di quasi 8 minuti nel 1976. Gimondi vinse il Giro anche nel 1969 dopo che Merckx fu squalificato: tracce di fencamfamina (sostanza stimolante) nelle urine. Felice chiuderà la sua carriera nel 1978. Sarà, poi, l’uomo simbolo della Bianchi. In quella veste, nel ‘98, ha accompagnato Marco Pantani sul podio di Parigi. Quel giorno Gimondi pianse di autentica gioia. Pantani fu il primo italiano a vincere il Tour dopo di lui che lo vinse nel 1965. Aveva 22 anni. Non avrebbe nemmeno dovuto correre. Arrivò alla Grande Boucle sostituendo Battista Babini, gregario di Vittorio Adorni, suo compagno di squadra, e fautore del primo incontro con l’amore della sua vita: la moglie Tiziana Bersano, ligure. Gimondi sostiene che metà delle sue vittorie sono merito della moglie. “Ho corso quattordici giri, nove volte sono salito sul podio – ha scritto Gimondi nella prefazione del libro “100 anni di Giro” – .Un bel pezzo di questa storia centenaria l’ho vissuta da protagonista e questa corsa mi rimarrà dentro per sempre. Questo lo sapevo, lo sentivo quel 28 maggio 1978, alla fine dell’ultima tappa: arrivati in piazza del Duomo, a Milano, terminate le cerimonie di premiazione, le interviste, i saluti uscii dalla confusione e mi avviai da solo, in bicicletta, verso l’albergo Andreola, dove da sempre, fin dai tempi di Coppi, la Bianchi prendeva alloggio.. Lontano dalla folla e dal rumore, mi resi conto che per me quello era l’ultimo Giro e la grande avventura stava per finire. E mi sorpresi a piangere“. Addio Campione.