Sino a tutto il dodicesimo secolo, gli insediamenti umani disposti sui versanti della Valle Imagna, organizzati per contrade, non possedevano una loro autonomia politica e religiosa, almeno sul piano dell’amministrazione dei principali servizi, ma dipendevano dall’autorità di Lemine, il cui centro di riferimento era rappresentato dall’antica chiesa plebana sulla quale, in tempi successivi, venne edificato il santuario della Madonna del Castello. Del presistente tempio plebano è rimasta la preziosa cripta, alla quale si accede dall’interno del santuario. Per l’assolvimento dei propri doveri religiosi, come pure per il pagamento delle decime, le popolazioni della valle dovevano scendere sino a Lemine; lo stesso valeva per ricevere i sacramenti (battesimo, prima comunione, matrimonio,…), ma la distanza e le non sempre facili condizioni meteorologiche complicavano gli spostamenti in direzione della pieve di fondovalle, collocata in prossimità della confluenza del torrente Imagna nel Brembo. Così, dal dodicesimo secolo sino a tutto l’Ottocento, assistiamo a un lungo e graduale processo di conquista delle autonomie locali e alla formazione, sin dalla metà del 1200, delle prime cappellanie “mercenarie” (ossia con il cappellano pagato direttamente dalla popolazione, che lo eleggeva e con il quale stipulava un vero e proprio contratto di servizio): staccandosi dalla chiesa madre di Lemine, le diverse comunità si organizzavano attorno ai propri separati servizi religiosi.
All’autonomia religiosa si accompagnò quella politica, con la nascita dei Comuni: gruppi di famiglie, dimoranti in contrade contigue, costruirono coalizioni per rivendicare un proprio potere locale e definire forme di governo del territorio più vicine alla popolazione. Nascono le prime parrocchie, le quali, a loro volta, fungono da chiese-madri per la formazione di altre cappellanie suscettibili di divenire in seguito organismi funzionalmente separati. Ecco un esempio: dalla pieve di Lemine si staccò nel tredicesimo secolo la chiesa di Sant’Omobono, dalla quale nel quindicesimo secolo nacque quella di Locatello, che più tardi, nel sedicesimo secolo, diede vita alla parrocchia di San Simone e Giuda Taddeo a Corna Imagna. L’attuale geografia religiosa e politica è il frutto di questo percorso millenario, tutt’altro che indolore, di decentramento delle manifestazioni di autonomia. Ciascuna comunità religiosa si è identificata in un santo patrono, ha istituito le proprie feste religiose e sviluppato una separata organizzazione sociale attraverso la quale, grazie a lasciti (legati) e donazioni, provvedeva al sostentamento del cappellano, o prevosto. L’intensa attività religiosa dell’intero comprensorio ha certamente favorito la costituzione dei due principali Santuari mariani, della Madonna del Castello e della Cornabusa, nati attorno al quindicesimo secolo, che contribuiscono a definire due specifiche identità religiose, delle comunità situate nella zona pedemontana dell’antico territorio di Lemine, da quelle distribuite invece sui versanti interni del catino del Resegone.
La storia, anche quella più remota, nasconde o confonde ma non butta via niente, cela ma non annulla, consentendo agli studiosi e alle persone più attente di cogliere situazioni attuali che affondano le loro radici nella notte dei tempi. C’è una festa, ancora oggi assai sentita dalla popolazione della Valle Imagna, che ci riporta indietro di mille anni, consentendoci di recuperare la nostra dimensione storica originaria. E’ la festa della Candelora, o de la Madóna de Candìle, che si celebra il 2 febbraio presso il Santuario della Madonna del Castello, ad Almenno San Salvatore, già sede della chiesa plebana dell’antica Lemine. La ricorrenza liturgica della Presentazione di Gesù al tempio e della Purificazione di Maria è una ricorrenza religiosa di tradizione antichissima. “La cripta è il luogo più importante della Madonna del Castello anzitutto per un motivo religioso: da qui il cristianesimo si è irradiato in tutto il territorio della Plebanìa di Almenno. A riprova di questo sta la tradizione della festa della Madonna Candelora […]. In questo giorno ogni anno scendono nella cripta e sostano in preghiera migliaia di persone provenienti dai paesi che in passato erano soggetti alla pieve di Almenno. Per loro è come tornare alle origini della fede”, scrive Paolo Manzoni nel suo libro “Guida dialogata: Romanico, Gotico e Rinascimento ad Almenno”.
Il 2 febbraio, giorno della Candelora, può invocare il titolo di festa dell’antica pieve di Lemine. Anche dai paesi più distanti, ancora oggi diversi fedeli scendono ad Almenno, come facevano i loro antenati molti secoli addietro, recandosi alla chiesa plebana per assistere alla messa, all’accensione e alla distribuzione delle candele benedette, che serviranno durante l’anno per fronteggiare varie circostanze e accese nelle case soprattutto per invocare la luce del Signore nelle situazioni avverse (durante i violenti temporali, aspettando la guarigione di una persona, mentre si assiste un parente in punto di morte, nel corso di un parto difficile,…). Ma è anche la festa per l’invocazione della luce, quindi della vita, in vista della nuova annata agraria e di lavoro che sta per aprirsi: luce nei campi, nei prati, nelle stalle, nelle contrade, nelle persone. La Candelora è una festa di “mezzo inverno”: ci si prepara a dare l’addio alla cattiva stagione e il benvenuto alla primavera. Le giornate si sono visibilmente allungate, ma la luce del sole è ancora tenue e fioca, come quella provocata dalla fiamma della candela. Recita un noto proverbio: se gh’è ‘l sul a la Candelora, da l’inverno sémo fòra, ma se piove e tira vento, nell’inverno siamo dentro. Intanto nelle stalle si misurano le provviste di foraggio per le vacche, che devono bastare fino al mese di aprile, quande so le làgha ‘ndà.
Nel passato la festa della Candelora era decisamente più sentita: nelle vie adiacenti al santuario gh’ìa töt paràt fò per la processiù de la Madóna, ma anche al giorno d’oggi, per tutta la giornata, si susseguono celebrazioni religiose. Le bancarelle vengono allestite presso il sagrato, la piazza e le vie di accesso alla chiesa mettendo in mostra una mercanzia fatta di oggetti torniti, formaggi, frutta secca e biligòcc, dolciumi…, ma in passato, molti valligiani i vàa a sercà ol pescaröl per crompàa ol bertagnì. In un prato poco distante arrivavano pure le giostre. Ah, l’ìa nömenàda, öna ölta, la Caldelòra, èh! – affermano i meno giovani, ricordando il diffuso senso di pietà popolare dei valligiani nei confronti di questa particolare ricorrenza religiosa. Alcuni anziani, poi, come ol Lüige e ol Piéro de Macì, i laghàa mia stà öna ölta de ‘ndà dó: i partìa a pè la matìna da Cà Gaàs, col sò zaino a spài, per tornà endrì dóma la sira, con dét magàre u tochèt de formài de tara e ü sachèt torciàt sö con dét ol bertagnì. Ol turù envéce, l’ia ü lüso, mia per töcc…
Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna