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E’ bastato un vocabolario di duecento parole a Giovannino Guareschi per creare le storie di don Camillo e Peppone. Così ruspanti, essenziali, imbastite del silenzio della Bassa insieme allo scorrere placido dell’unico fiume rispettabile in Italia: il Po. Storie tradotte in tutte le lingue che hanno fatto il giro del mondo. Soltanto in Cina e Albania mancano all’appello negli scaffali delle biblioteche.

Devi sempre dire la verità

Cronache delle Bassa marchiate del fuoco emiliano come accade per le forme di formaggio, e dentro gustose, umane, senza sapori o odori appiattiti. Chi le legge è come se spalancasse una persiana rimasta chiusa e scoprisse d’incanto un‘effusione di verde, sole, acqua e cielo dove si litiga per un confine oltrepassato per poi dimenticarsi di ogni screzio quando l’esondazione del Grande Fiume vuole tutti compatti, uniti, reciprocamente solidali. Istantanee della vita quotidiana che Giovannino Guareschi raccoglieva in giro in bicicletta nelle sue prime pedalate da cronista per il giornale locale. Don Camillo e Peppone nascono qui in questa terra che sa quel che conta e che vale, che sa dov’ è il sugo del sale. Guareschi piace perché è un autore vero, franco con il lettore, rimasto fedele a quel primo pensiero – Devi dire sempre la verità – che la sua maestra delle elementari, la signora Amelia Bocchi, gli dettò in classe.  “La sincerità – sottolinea Alessandro Gnocchi, biografo di Giovannino Guareschi – è il collante di tutti gli elementi che hanno fatto di questo uomo della Bassa un caso letterario”. E non solo, considerato il successo delle pellicole in bianco e nero con l’imponente Fernadel nella tonaca di don Camillo e Gino Cervi nei pantaloni di fustagno del sindaco Peppone. Vicende che conservano a distanza di anni una singolare freschezza. Non ci si stanca di riprendere in mano quelle pagine, di rivedere quei film quasi si configurassero come una necessaria ricarica di umanità, dove il buon senso sta sempre un gradino più in altro rispetto alla direttive fredde di un’ideologia.

Il capitano coraggioso

Don Camillo e Peppone, nonostante le divergenze politiche, in ogni vicenda sanno dare il giusto peso ai valori, meditano con la loro testa senza farsi adottare da schemi già impostati pronti all’uso. Personaggi che spingono l’uomo a ragionare con il suo cervello e la sua coscienza. La libertà indomita di Guareschi è tutta riversata nei suoi libri, nei suoi diari, nei suoi articoli di giornale. Una libertà che qualcuno considerò scomoda. Quando morì, nel luglio del 1968, un quotidiano parlò del “Malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto”. Un settimanale arrivò a scrivere: “Con Peppone e don Camillo e con quel Cristo saccente, che è un grosso atto di irriverenza, Giovannino Guareschi ha combattuto soprattutto la politica, i partiti, le differenze ideologiche al grido tutto italiano e menefreghista di ‘Volemose bene'”. Due giudizi impietosi, scaturiti da due opposte correnti di pensiero, che testimoniano ancora una volta l’autonomia di uomo ostile ad ogni categorizzazione. Enzo Tortora, l’inventore di Portobello, sulla Gazzetta di Parma lo definì invece “il capitano coraggioso”. “Per molti, Giovannino Guareschi ha tolto il disturbo. In realtà, è più probabile che si fosse annoiato. Annoiato di questo bigio panorama d’anime, di questo univoco coro gregoriano del conformismo truccato da impegno”.  Nella bara portò con sé quattro oggetti che lo avevano tenuto attaccato alla vita anche nei frangenti più tristi. Una scarpina della figlia Carlotta appena nata. La crosta di formaggio con la traccia dei denti di Alberto, l’altro figlio. E poi il suo martello preferito e la sua matita.

La coppia Gino Cervi-Fernandel

Ci volle un francese, l’eccellente Julien Duvivier, per allestire il set dei primi film di Don Camillo. Registi italiani come Mario Camerini, Vittorio De Sica e Luigi Zampa declinarono l’invito. All’inizio delle riprese Guareschi fu scritturato per interpretare Peppone. Si pensava che avesse i baffi e il portamento per vestire i panni del primo cittadino, comunista, di Brescello. Ma dopo quattordici ciak fallimentari girati per la scena dell’intervallo della partita di calcio fra la squadra della parrocchia e quella della sezione comunista la carriera di attore di Guareschi finì con un contratto di lavoro revocato dopo soltanto tre giornate passate davanti all’obbiettivo cinematografico. Toccava ora alla coppia Gino Cervi-Fernandel sprigionare il potenziale filmico contenuto nelle pagine di Guareschi ormai “ridotto” al ruolo di consulente di regia. Se Gino Cervi insisteva nel voler interpretare Don Camillo il regista Duvivier impose Fernandel anche se la forte fisicità dell’attore francese non combaciava per niente con l’idea del parroco di Brescello immaginata da Guareschi. Anzi scrisse a Cervi per esortarlo a non recedere dal proposito di indossare la tonaca: “Tu solo puoi essere il mio Don Camillo. Prego il buon Dio che non ti abbia fatto cambiare idea”. “Sono lusingatissimo… – rispose Cervi – Ormai per tutti e soprattutto per me sono Peppone”. Così quando nel 1952 il film uscì Don Camillo ebbe la maschera spigolosa di un Fernandel eccezionale nel suo incedere energico dentro scarpe smisurate.

Il film è uscito come volevano loro

Le parole del Cristo sull’altare maggiore (fatto costruire apposta dal regista) furono affidate alla voce un po’ nasale, ma calda e rassicurante, di Ruggero Ruggeri. Anche se il film ottenne un consenso entusiasta non era la pellicola che Guareschi avrebbe desiderato. “Il film è uscito come volevano loro” disse con amarezza. Qualche esempio, tratto dalla tesi di laurea di Maristella Castagnetti, rende bene l’idea di quanto il film “addolcisse” l’intreccio delle sceneggiature di Guareschi. L’episodio è quello del delegato federale dei comunisti che tiene un comizio in piazza. “Nel copione – si legge nella tesi – il figlio più piccolo di Peppone, quando Don Camillo comincia a suonare le campane chiede al padre: “Papà, vuoi il mitra?”. Nel film il bambino c’è, ma non viene menzionato alcun mitra”. E ancora: “I rossi di città della sceneggiatura sono degli scansafatiche che insultano Don Camillo in bicicletta dandogli del “sacco di stracci”, “cornacchione motorizzato”, “budellone”. Nel film, invece, tali accuse non compaiono (si ode solo “un prete da corsa”) e così la violenta reazione di Don Camillo appare immotivata”. Nonostante i “tradimenti” alla sceneggiatura originale il film ottenne prestigiosi riconoscimenti. In Germania la Corporazione Evangelica dei Film giudicò “Don Camillo und Peppone” miglior pellicola del mese di dicembre 1952. La motivazione: “Testimonia come i sentimenti di vera umanità possano calmare anche i più accaniti antagonisti”.

Padre Lino Maupas ispirò don Camillo

Nel 1953, il Festival del cinema di Berlino assegnò al Don Camillo il premio per il “Miglior film democratico dell’anno”. “Quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino” aveva conquistato il gotha del cinema internazionale. I giurati, convocati a Berlino, rimasero affascinati dalla mimica coriacea e dolcissima di un Fernandel nel suo periodo migliore ignorando probabilmente la persona, realmente vissuta, che ispirò Giovannino Guareschi nel creare il suo don Camillo. Era un francescano, padre Lino Maupas. Di lui Giovannino scrisse: “Un frate che rubava ai ricchi per dare ai poveri… che non esitava a entrare nelle case di tolleranza per questuare dalle prostitute indumenti e danaro da distribuire a poveri neonati dell’Oltretorrente, un frate che (io lo ricordo bene) girava per la città con fascine sulle spalle o reggendo a fatica grosse pentole di minestra, e, quando una madre non aveva più latte, prendeva amorevolmente il povero bambinello affamato tra le braccia e girava in lungo e in largo fino a quando non trovava una donna disposta a regalare qualche poppata al piccolo infelice. Tutto ciò rappresenta qualcosa di meraviglioso se si pensa ai tempi in cui ciò avveniva”.

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