Per un weekend a Venezia mi sono sistemato dieci chilometri prima, a Dolo, in una villa settecentesca di nobile famiglia veneziana. Venivano d’estate con la loro imbarcazione finemente lavorata, il burchiello, attraverso Il Naviglio del Brenta. L’approdo era davanti alla Villa. La servitù li attendeva. C’erano lavori di cucina, pulizia, guardaroba, manutenzione del giardino – un violento temporale recentemente ha sradicato molti alberi – e i lavori dei campi, della terra che garantiva il tenore di vita adeguato. C’erano gli addetti alla scuderia costruita in fondo al parco, rimasta seppur sfigurata dal tempo, con decorazioni e forme sbalzate nel legno, dove erano riparati accanto agli animali da fatica quelli di equitazione, per lo svago e le apparizioni in società.
Casuale è stata la nostra prenotazione, e fortunata, una sorpresa fuori e dentro, nell’atrio, per le sale, le scale, vedendo la varietà di mobilio, lampadari, vasi, tele, stampe, soprammobili, specchi, stucchi da far pensare ancora una volta, quanto è fragile e bella la nostra Italia.
Dolo è un paese in parte sorto su un’isola, creata dal canale d’acqua che scendendo da Padova si biforca per ricongiungersi e proseguire verso Venezia. E’ pittoresca, a dispetto dell’espressione dialettale “ma ti vien dal Dòeo” (Dolo), che è del dare del tonto a qualcuno, in origine in bocca ai signori della città per denotare la distanza dal volgo del contado.
Dolo è vivace nello svolgersi della giornata. Lo squero, luogo di messa in secca delle imbarcazioni, oggi è inondato da atleti vocianti – in prevalenza donne – per una non competitiva “Marcia in rosa”, sulla riva opposta alla Chiesa, “il Duomo”, come mi ha corretto la cameriera, un edificio in stile palladiano dalla facciata marmorea e luccicante al sole. Contiene affreschi di Costantino Cedini, alunno del Tiepolo, dedicati al patrono San Rocco, e poi una Natività e un’Epifania. Il campanile imponente è ricalcato su quello di San Marco che ha fatto scuola un po’ dovunque qui.
Nell’ora meridiana i locali si animano nella zona del vecchio mulino, uno tra i tanti che ci dovevano essere lungo il Naviglio. Vi passa la ciclabile, un via vai di gente di ogni età, tanti invogliati dalla promettente giornata, a coppie o a gruppi, bambini alla ruota di mamma o papà, evitando chi passeggia appena uscito dalla messa, o chi è fermo a guardare, o seduto al tavolino per l’aperitivo, per una bibita dissetante, con la bicicletta appoggiata al corrimano, al suono dello stridio di gabbiani in volo e dello scroscio dell’acqua che cade sulle pale del mulino. Invece la sera i locali rimasti chiusi esplodono di gioventù chiassosa, in movimento o in piedi attorno ai tavolini, pigiati in tavolata per gli assaggini del tagliere, lo spritz o il cicchetto; “chè”, commentava quello dell’albergo, “i giovani xè tuti mati”.
Ma non si può, a così breve distanza, resistere alla tentazione di rivedere Venezia. Pur con la fatica di avere un neonato in carrozzella, su un treno affollato, nella fiumana che si interseca, rallentando e schivando, su e giù per ponticelli, attraversando il Ghetto, il Fontego dei Tedeschi, Rialto, San Marco, la Riva degli Schiavoni, il Ponte dei sospiri e teatro della leggendaria evasione di Casanova. Avanti, e dire “scusa, permesso, prego, grazie”, con gente che passa e sbuca. Il piccolo dorme o tace, a occhi chiusi nel suo guscio protettivo. Ci basta vedere il miracolo della città sull’acqua, le calli o i rii, i campi e i campielli, le fondamenta dove si rubava spazio al mare conficcando migliaia di pali di sostegno , entrando nei portego trasformati in caffè e ristoranti.
Finalmente fuori dai soliti percorsi, per stradine deserte, in un labirinto giocoso quasi da perdersi, a lato di canali che hanno sempre qualche briccolo, i tre pali incrociati per attracco o a segnalare la marea, vie d’acqua che hanno punti ciechi dove il gondoliere o timoniere, non uso al semaforo, segnala a voce, in strade con panni sospesi ad asciugare.
Può essere che stanchi di vagare e giunti davanti ad una chiesa con la sua piazza vi chiediate ancora “che è?” e lo dite ad alta voce. Il vecchietto, dalla faccia abbronzata e gli occhi vispi che nel frattempo vi ha affiancato, vi potrebbe rispondere: “è la Chiesa di San Francesco della Vigna” e sorridendo al bimbo in carrozzella aggiunga:”xe bel puteo!”. Con lui vi mettete a parlare di bottigliette di plastica nei canali, di vita cara, di salsedine che corrode, o magari di gabbiani voraci e screanzati o di vagabondi che calano la mattina e ripartono la sera. Poi forse, dato che ha fatto da sagrestano, vi parla della chiesa costruita dai frati francescani, qui nel Sestiere del Castello che è poi il luogo dove, secondo la tradizione approdò San Marco scampando ad un naufragio. Vi raccomanda di osservare bene la facciata fatta dal Sansovino su disegno del Palladio e poi entrare perché dentro ci sono opere di Vivarini, Palma il Giovane, Paolo Veronese, Gianbattista Tiepolo, Giovanni Bellini. Mica uno scherzo! Beh, a quei tempi era facile per quei Francescani incontrare gli artisti per strada o vederli all’opera nelle loro botteghe.
Allora voi che eravate stanchi riprendete vigore, vi viene voglia proprio di osservare e mettervi a girare per la navata, anche di leggere le spiegazioni, e spontaneo vi viene da dire “però, sono proprio belle!”. Quei volti scolpiti sul tal monumento o lapide vi diventano familiari, quasi da ricordare qualcheduno che avete conosciuto.
Se poi fuori incontrate di nuovo quel signore che se n’era andato per la sua strada, lo ringraziate naturalmente perché vi ha fatto scoprire un angolo nuovo di Venezia. Magari lui vi potrebbe suggerire di prendere il traghetto, che in dieci minuti siete a Piazzale Roma, “non vorrete farvi altri venti ponti o ponticelli con quel puteo in carrozzella?”.
Potete ascoltarlo o no, e così rifarvi i ponti come abbiamo fatto noi. Ad ogni modo avrete un altro motivo per tornare a Venezia, perché gli angoli da scoprire sono inesauribili.
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