Dopo due giorni di acqua il sole ci accompagna a Corte–nuova, comunità nata dai Longobardi. Il mio professore di greco che si chiamava Cortinovis diceva che i Cortinovis venivano da qui. Il verde si allarga, oltre Romano di Lombardia verso il fiume Oglio. Sembra poca cosa, qualche casa, la chiesa, la piazza, il bar e due tavolini fuori. Una quiete rilassante.
Cortenuova è legata alla battaglia svoltasi nel1237 tra guelfi e ghibellini. Nelle file dell’esercito imperiale c’erano Bergamo e Cremona. Si opponevano a Milano e Brescia. La contesa era per le acque dell’Oglio. Si continuava però lo scontro tra Papa e Imperatore, Gregorio IX e Federico II. A Cortenuova vinsero le truppe imperiali. Il feudo del Conte di Cortenuova, guelfo, fu saccheggiato; le mura, i fossati, le torri, le case, tutto spianato, e gli abitanti costretti alla fuga. Ma il sogno dell’imperatore “miscredente” che si sentiva l’eletto di Dio, Signore indiscusso, detentore della forza e garante dell’ordine, compreso il controllo di Vescovadi e monasteri, si sarebbe infranto a breve. Dante sposerà questo sogno pur con altri intendimenti.
Si può immaginare la battaglia. Più che uno scontro in campo aperto fu un inganno, una serie di scaramucce, posizionamenti e ritirate, assalti e aggiramenti, nei campi e nella boscaglia, in mezzo ad acquitrini e tra il condensarsi o diradarsi delle nebbie autunnali. Chiaro l’esito, incerta fino all’ultimo la battaglia, specialmente se vista dalla parte dei combattenti, al giungere di messaggeri che annunciavano conquiste o disfatte, i belligeranti presi dalla foga di continuare o dalla paura di soccombere. Il monumento commemorativo posto di fronte al Comune riporta gli stemmi delle città partecipanti tra cui Trento, Modena, Piacenza, Crema.
Duecento anni dopo Cortenuova era territorio del Colleoni, al confine tra Stato veneto e Ducato di Milano. “Sulla strada dei campi verso il cimitero troverà la sua tomba” così il mio interlocutore seduto al bar. ”Odel Barbarossa?” aggiunge incerto, “a scuola ci portavano là con nostra soddisfazione”. Dall’aspetto di minuscolo cimitero – un quadrato di una ventina di metri? – protetto da muri, il cancello chiuso dalla catena, e la porta del sacrario semiaperta. Intorno i campi di orzo e le spighe verdeggianti. In realtà è il Mausoleo per il Conte Vincenzo Colleoni, dragone della Grande Armata napoleonica. Il “nostro” Colleoni, capitano di ventura della Repubblica veneta, fu seppellito nella sua città, Bergamo, nella Cappella appositamente preparata per l’ultima delle otto figlie, Medea, morta sedicenne nel 1460. Di Bartolomeo Colleoni visiteremo nel pomeriggio a Romano uno dei suoi castelli.
La Chiesa di Cortenuova è dedicata a Sant’Alessandro, altro soldato. Per chi entra balzano all’occhio, per la loro dimensione, i quadri in parete, la Cacciata dei mercanti dal tempio – anche Gesù aveva i suoi momenti d’ira – e l’Ultima Cena, opere del pittore D. Carnelli, di inizio Novecento. Opere più importanti sono custodite nella sagrestia. Sui ruderi della vecchia chiesa costruirono una nuova nel Quattrocento. Non quella attuale che fu avviata con l’ultimo Doge di Venezia, eretta nel corso della Repubblica Cisalpina e completata in piena età di governo austriaco. La sua struttura è di stile neoclassico, la facciata oggi nascosta, in restauro.
Una signora mi vede incerto davanti alla porta dell’Asilo “San Giuseppe”. Ne avevo appena visto uno intitolato a “Gino Strada e Teresa Santi”. “Due asili?” “No, uno soltanto e nuovo, inaugurato un anno fa, vicino alle scuole”. Ogni generazione ha le proprie memorie, come per la scuola elementare la titolazione a Margherita Hack. Ci invita a vedere la Villa Colleoni. Palazzo settecentesco, luogo di villeggiatura, oggi location di eventi, matrimoni o convegni. Il giardiniere sta regolando il prato antistante. Alle spalle si sviluppò la cascina contadina, un grande cortile e le abitazioni intorno, trasformate in abitazioni. “Venti famiglie contadine ci vivevano, venti vi risiedono ancora”, mi dice un suo abitante. Mi fa notare gli archi di vecchi porticati, i finestroni che servivano per arieggiare ambienti dove si ponevano i bachi di seta.
“Non è più il tempo dei contadini. Un tempo avere gli animali, mucche da latte e campi da coltivare era vita. Campavano famiglie numerose. Oggi no, non c’è guadagno. Fatica grande e se ti arriva la bufera di ieri sei col culo per terra. Chi ti ripaga? Si moltiplicano invece le serre; da qui a Martinengo ormai una serra unica, per coltivare di tutto, verdure, fiori, frutti, dai kiwi all’insalata alle ciliegie”. All’angolo si nota la chiesetta della Villa. “Dentro è affrescata, ha ancora i suoi stucchi. Ma ci hanno abitato un po’ tutti, da ultimi gli extracomunitari”. Che si prendono le colpe.
Sugli stranieri cadrà il discorso anche a pranzo, con i commensali dei tavolini a fianco. “Eppure si dice che di loro abbiamo bisogno” “Non sanno il mestiere” “Ci vuole tempo?”. “I rumeni? L’edilizia è sempre più in mano loro” “I cinesi? Lavorano sabato e domenica, rilevano bar, tabaccherie, ristoranti, dispongono di capitali, dio sa come, ciò che a noi manca”. Noi e loro, uno schema mentale di confini, dentro e fuori, nord e sud. Dividiamo e cataloghiamo per capire e capirci, e inevitabilmente per operare.
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