Dopo aver rinunciato alla neve del Pora – troppa e troppe macchine – ci fermiamo a Fì del mut, Fino del Monte, dove la discesa finisce e con Rovetta inizia la piana di Clusone. “Fino” pare venga da una certa famiglia dei Fino appunto che qui venne ad abitare poco dopo il Mille. Era il periodo in cui iniziarono le lotte tra Guelfi e Ghibellini coinvolgendo città e paesi. E le lotte proseguirono fino all’avvento di Venezia. “Che gli uomini a volte hanno bisogno, più che della ragione, della forza di uno più potente di loro” direbbe Machiavelli.
Oggi qui è pace anzi calma, in tempo natalizio: un ristorante ha il cartello “chiuso”, la bottega ha la dicitura “attività sospesa“, una vetrina espone l’avviso “vendesi”. Non dovunque, per fortuna, perché un posto per mangiare c’è. Poi a gironzolare con un cielo azzurro e luminoso tanto diverso da quel che avevamo lasciato a Bergamo, tra tetti e prati innevati, i pini dalle spalline bianche, faggi che al sole meridiano si scrollano dei rimasugli di neve come getti di coriandoli, percorrendo una strada che traccia una riga nera nel bianco dai candidi lati non ancora sporcati di smog.
Ci accorgiamo che c’è un irregolare piano rialzato nella linea del caseggiato in piazza, con accenni di merlature, resti dell’antico castello che serviva da controllo del territorio, o a difesa e luogo di riparo in caso di minacce più serie. Inoltrandosi per una via laterale si trova un’entrata dalla volta ad arco formata da blocchi di pietra e dentro un piacevole cortile contornato da archi e colonnine e sopra il corrispondente loggiato. Si tratta del Convento delle Monache di Santa Chiara, che vivevano in clausura. Risale alla fine del Quattrocento. Nacque secondo lo spirito francescano che Chiara aveva subito interpretato. Lei davanti ai parenti venuti a strapparla di forza da una scelta tanto estrema aveva afferrato con una mano la tovaglia dell’altare e con l’altra si era scoperto il capo rasato, lei di bella capigliatura e dal dolce sorriso – li aveva tagliati all’altare della Porziuncola dove aveva deposti anche gli ornamenti – a indicare la sua irrevocabile consacrazione a Dio. Dopo un centinaio di anni il convento aveva esaurito la sua vita, in occasione della visita di S. Carlo Borromeo (1575) il quale, “parendogli che detto Convento fosse segretato (isolato) dal consorzio delle genti e troppo sottoposto, perciò, alle ingiurie degli uomini scellerati”, decise di aggregare le monache a quelle di Clusone.
A Fino del Monte, nello stesso spirito di attenzione ai poveri era sorto ed è rimasto il Consorzio della Misericordia di S. Maria dei Nobili da Fin (1459) che nello statuto aveva la clausola di “soccorrere i più bisognosi della parentela, e dispensare farina e “cacio salato”, la vigilia di Natale, a tutti gli appartenenti al Consorzio, senza distinzione”. Un fatto eccezionale se pensiamo alle tante vicende storiche e ai cambiamenti istituzionali che sono susseguiti.
Accanto al Convento di Fino del Monte è la preesistente chiesetta di San Salvatore dei Frati francescani. Dietro l’altare vi è posta una tela di Enea Salmeggia, detto il Talpino (1621), pittore cresciuto in una bottega del quartiere S. Leonardo di Bergamo. Si tratta di una Trasfigurazione.
La Chiesa Parrocchiale, dedicata all’Apostolo Andrea, è di recente costruzione (1911). Fu affiancata a quella vecchia che rimase poi abbandonata e in degrado fino al recente abbattimento (1957) per allargare la strada. Sopra l’altare maggiore brilla la tela del Moroni, Madonna e bambino con i Santi Pietro e Andrea (vedi foto). La chiarezza non è solo nei colori ma anche nella disposizione delle figure e nell’architettura che le raccoglie. S. Andrea ha in una mano un libro nell’altra, nell’atto di raccogliere la tunica, una chiave, ai piedi i calzari, come di chi sta per partire. Anche lui pescatore fu chiamato da Gesù insieme al fratello Pietro ad essere pescatore di uomini e a portare la nuova parola lontano. La tradizione gli attribuisce una missione tra i popoli del Nord, dove fu martirizzato a Patrasso – si racconta in un Vangelo apocrifo – su una croce a X. Con la bella giornata la luce, che si riverbera nel biancore della neve attorno, entra da ampi oblò e fa risaltare la bella architettura che la riveste come un vestito delle grandi occasioni.