Francesco Guccini oggi compie 80 anni, per me è tante canzoni, tanti ricordi, tanto vissuto: insieme a De Andrè e Bennato sta sul podio della colonna musicale della mia vita, l’ordine dipende dall’umore, o forse dalle segrete congiunzioni astrali di quel Borges che ha tanto amato.
Cantore di valori universali quali i diritti e la giustizia, contrario ad ogni pregiudizio, è sempre stato interprete non omologato e libertario del tempo che prende e dà, e dei tempi che ha attraversato: diversamente dalle etichette che gli hanno attaccato, ha cantato l’esistenza e non la politica, convinto che l’esserci è più importante delle disquisizioni sull’essere, il saper coniugare non vale solo per i verbi ma anche per la vita, è il saper collegare cose tra loro distinte e distanti, la vita basata su un’educazione dialettica, fatta di relazioni: sempre libero da ogni schema dogmatico e perciò non inquadrabile nelle ordinate definizioni di campo e di comodo.
Certo non è mai stato di destra, ma certi valori non hanno colore né mercato. Tolleranza e dialogo presuppongono un relativismo etico che non è disinvoltura etica, e che è contro la presunzione di essere i soli depositari di un valore assoluto. Troppo per i dogmatici di ogni colore e fede. Esemplare a tal proposito lo scontro con Riccardo Bertoncelli, all’epoca (era il 1976) giovanissimo ma già promettente critico musicale che stroncò una sua canzone, e lui gli dedicò una celebre strofa: “..tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate“: i due si incontrarono e divennero amici, in via Paolo Fabbri, 43. Rigorosamente con la erre arrotata.
Cresciuto nel mito americano della Beat Generation, l’ha portata dalla metropolitana Frisco di Ferlinghetti alla provincia della via Emilia, i tornanti dell’Appennino al posto delle higways americane, vino rosso al posto di lsd del “Gianni ritornato da Londra“, osterie al posto di sotterranei da dove lanciare comunque “Ho visto“, incipit dell’Urlo di Ginsberg e della sua prima canzone “Dio è morto“, manifesto generazionale censurato dalla Rai ma trasmesso da Radio Vaticana della chiesa conciliare, si cantava persino in chiesa per lo sdegno dei benpensanti. Era il 1965, non era iscritto alla Siae per cui la affidò alle tastiere di Beppe Carletti e alla voce iconica di Augusto Daolio, Nomadi. Subito dopo “Auschwitz” e “In morte di S. F.“, così, tanto per cominciare. Non nasceva solo un cantante, ma un poeta, un artista della parola: nessuna concessione alla musica yè-yè, alle logiche commerciali e alle mode consumistiche, la parola molto più importante della musica, per maestri Brel e Brassens, come per Faber, per tutti loro anche le ballate di disperati. In pochi come lui hanno avuto la padronanza e il rispetto della parola: retorica, grammatica e dialettica servono per pulire le idee, la comunicazione mai pensata per trasformare la realtà in reality-show, nell’esibizionismo delirante della nullità, come accadrà negli anni 80 con l’avvento della Mtv generation di B. Easton Ellis, e ancor peggio come accade oggi.
Il ’77 fu il ’68 italiano, l’eskimo un simbolo dei giovani di sinistra, lui gli dedicò una canzone, lo portavo anch’io, per entrambi era “innocente”, teneva caldo e costava poco, io avevo appena smesso i pantaloni corti dismessi dallo zio Mario, 4 anni più di me, e a volte anche del più grande zio Gigi, il ciclista che ha sprintato troppo presto per l’ultima volata. E ho sempre avuto anch’io una “casa sul confine della sera….e dei ricordi…e tu ricerchi là le tue radici, se vuoi capire l’anima che hai“, la casa dei nonni dove sono cresciuto, gente di montagna, di boschi e di sostanza, col ricordo ancora vivo della guerra e il presente ricco di valori morali e di povertà materiale, la sua Pavana adagiata sulle pendici dell’Appennino tosco-emiliano ricordava la “mia” Piazza Martina conficcata sotto il Canto Alto sponda brembana, si potrebbe dire “al roverso” secondo l’uso gaddiano del dialetto italianizzato che tanto ha utilizzato quando ha cominciato a scrivere libri.
Un anno al liceo avevo ricoperto la copertina del diario con la strofa di una sua canzone, “Scusate non mi lego a questa schiera morrò pecora nera“, mi ha sempre affascinato ma col tempo ho anche capito quanto non ne fossi all’altezza. Un rammarico, non essere mai andato a Pavana a trovarlo. Il mio amico Ale della piscina l’ha fatto, è una delle due cose che più gli invidio: l’altra sono i suoi mitici calzettoni rossi. Ale, mi unisco a te nel fare gli auguri per i suoi 80 anni al grande, buono, pregiato (come certo vino rosso) Maestrone: e la prossima volta mi racconterai ancora di quell’incontro, consapevoli che “caro amico, il tempo prende, il tempo dà“.
P.S.: oggi è anche il compleanno di Che Guevara e D. Trump: del Che non so cosa ne pensi Guccini, del secondo posso dire che non è colpa sua.