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Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Marguerite de Crayencour, nacque a Bruxelles nel 1903 da padre francese e madre belga. Dopo aver viaggiato a lungo in Europa e in Oriente, si stabilì nell’isola di Mount Desert nel Maine, dove morì nel 1987. Prima donna a venire eletta all’Académie Française, è stata una delle più grandi narratrici del Novecento. Della sua vasta opera ricordiamo Alexis o il trattato della lotta vana (1929), Il colpo di grazia (1939), Memorie di Adriano (1951) e L’opera al nero (1968).


Una sua riflessione sul lavoro di scrittore, estratta da una serie di interviste rilasciate nel 1981. 

Chi è lo scrittore per lei?
Per lui vale quanto diceva Diderot a proposito dell’attore (Paradoxe sur le comédien): deve essere se stesso e fare tabula rasa di sé. Non si tratta di pensare qualcosa e poi trasmetterla, non sarà che polvere e lui resterà sempre lontano dalla realtà. Primo dovere dello scrittore è l’attenzione, attenzione a ciò che sente, che si muove intorno e non invece lasciarsi attraversare. Un detto Tao dice: governare un grande impero è lo stesso che friggere un pesciolino. Ambedue richiedono la completa attenzione; i minimi dettagli hanno il valore dell’estrema realtà. Non conta l’oggetto dello scrivere dell’autore, se sia la guerra o la pace, lui parte da piccole sensazioni che lui codifica ed hanno un grande valore.

Come raggiungere questo livello di attenzione?
Preferisco citare un testo orientale: “lo spirito fermo su una cosa non deve lasciarla troppo presto per passare ad un’altra”. Come nella pittura di Rembrandt la linea non è netta, sfuma nell’ombra. Specialmente i giovani si lasciano trasportare da un soggetto ad un altro senza fermarsi sul margine. Invece bisogna fermarsi lì e, come davanti a un precipizio, l’esistenza si rivela. I grandi scrittori sono sensibili alla mobilità del dettaglio, lo scrittore convenzionale ci passa sopra e fallisce.

In che misura lo scrittore deve essere fedele alla verità?
In realtà non ci sentiamo stabili di niente. Dietro tale instabilità sta la verità. Stiamo attenti all’inconoscibile, a ciò che non accederà mai all’esistenza. Guai ai caratteri definiti, ai personaggi determinati, alle cose ferme. Invece dietro questo vuoto ci sono le virtualità, le possibilità, ciò che nel personaggio non si rivela né si rivelerà mai, eppure sono là e lo arricchiscono senza saperlo.  



Non rende tutto troppo relativo, niente di fisso?
Fissare l’attenzione sì, fissare il pensiero no. Il pensiero è come uno specchio che passeggia per strada. Come nei dipinti di R. Estes che ha come temi paesaggi urbani, molto accurati nei dettagli e soprattutto vetrine di negozi con riflessi e trasparenze. Dobbiamo meditare sul nostro sé in forma di firmamento illimitato. Ricordiamoci che siamo più grandi di noi stessi e questo non sembri una forma di orgoglio.

Non può dar le vertigini?
Ogni volta che lo scrittore termina un libro si dice: mamma mia, sono riuscito a fare questo! E’ una sensazione che a volte mette sgomento. Non so se conoscete la storia del cavaliere che in una notte attraversa il Lago di Costanza ghiacciato, senza rendersene conto. Arrivato alla locanda e apprendendo dall’albergatore cosa ha fatto, stramazza a terra morto. Quando lo scrittore finisce ha lo stupore di essersi spinto tanto lontano da sé, in un dominio che è quello della vita. Perché – altra nota importante – lo scrittore per scrivere deve immergersi nella vita. 

Tradotto e adattato da Mauro Malighetti


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