Biondi immobiliare

Per salire al Rifugio Vodala di solito seguivo la pista degli sciatori. Mi hanno indicato il prato: “In cima troverai lo sterrato”. “Quanto tempo? Un’ora?” Mi ha risposto con l’oscillazione della mano; prenderla comoda, mi sono detto, da troppo tempo lontano dai rifugi. Era il sentiero della Baite. La strada saliva, piegava ora da una parte ora dall’altra, a volte addentrandosi in valletta, oppure zizzagando sul prato. Continuavo senza incontrare nessuno. I baldi e allegri giovani della partenza erano presto spariti davanti a me.

Pensavo a quanto letto su Gromo. Ai Celti che vi abitavano, gli scambi aumentati con la dominazione romana, lo sfruttamento del territorio. Interessavano le miniere di ferro anche se il più veniva dalla Val di Scalve. Lo si lavorava per spade o armature – e oltre che armi si sono trovate monete, anfore, resti di edifici – e si trafficava. Nel Medioevo il territorio venne gelosamente controllato dal Vescovo di Bergamo. A Bergamo si affinava l’argento ed era proibito esportarlo nei Comuni rivali.

Sono arrivato alla prima baita al suono di campanacci delle mucche, più pacifico rispetto a quello chiassoso che i ragazzi si divertivano a diffondere per il paese per il Zenerù (gennaione), nei giorni della merla. Una ragazza stava fuori, seduta al tavolo e intorno sparpagliati aveva libri e fogli. Non ho chiesto di esami ma di formaggi, “di capra magari?” senza pensare che tenere le capre in quel posto sarebbe stato piuttosto impegnativo. “E per il Vodala?” “Va bene, e alla terza baita a destra” confermando con il polso piegato.

Mi son goduto il verde scoppiettante delle piogge, gli uccelli canterini e il trillo dei grilli, i prati dai mille fiori con il giallo dei botton d’oro pensando al lavoro delle api e agli alveari colorati visti salendo a Boario nel vorticoso andirivieni delle operaie, per la gioia degli apicoltori finora rimasti a secco per la brutta stagione.

Oltre la seconda baita, graziosa casetta, dominano gli abeti e si continua con altre rientranze e slarghi fino alla sospirata baita. Il sentiero passava a destra ma ce n’era un altro nascosto che avrei potuto dedurre dalla manina della ragazza. Quando in alto ho sentito l’eco di voci lontane e l’intermittente rumore della seggiovia nello scorrere sul palo, l’equivoco si è chiarito, ho capito la strada giusta. Raddoppiato il tempo previsto ma soddisfatto.

Nel pomeriggio la visita, frettolosa, approfittando della seggiovia che sorvola alberi ormai senza ordine di un bosco prorompente e la pista che lo taglia. La natura era regolamentata da Venezia, “dove boschezar” e  “come pascolar” e  “ai forastieri era permesso di portar via solo legne minute da foco”.

Agli Spiazzi una veloce sosta alla Chiesa con bel porticato che oggi ripara dal sole, e prima la piazza dove è posta la lapide dei caduti – troppi per così pochi abitanti – e sulla casa di fronte si legge sbiadita la scritta  “Scuola elementare” e vicino “Dopolavoro”, ricordi di un diverso vivere.

Appare quindi il borgo di Gromo, una macchia grigia che risalta sulle case bianche e colorate intorno. Svetta la Torre dei Ginami, protagonisti di lotte tra Guelfi e Ghibellini, signori loro sì e temuti, ma che dovevano tener sempre conto di altre famiglie e della Municipalità, di contrade e di chiese, di confraternite e di monaci.

A valle la Centrale di Gromo, anzi due, come mi corregge chi abita dove ho fermato l’auto, “una dei Crespi, l’altra degli Albini, una che prende l’acqua dal Goglio, l’altra che convoglia le acque di Boario”, risalenti agli albori del ‘900 e regolarmente funzionanti. L’acqua serviva gli appezzamenti coltivati, i mulini, le officine e le fucine, era vita e pericolo, attesa e temuta. Nel 1666, festa d’Ognissanti, con l’improvvisa burrasca un pezzo di montagna in parte al Goglio collassò e si portò via la contrada con le 20 famiglie che vi abitavano. Disgrazie che restano nella memoria.

Al mio arrivo alla Chiesa stavano abbellendo l’altare già preziosissimo di suo per un matrimonio. Un provvidenziale cicerone mi ha condotto, altare per altare, agli affreschi del Cifrondi, “pittor fantasico”, clusonese e attivissimo in zona, per scene sul Santo patrono Giacomo, il pellegrino di Compostella; al dipinto della Madonna e Santo in preghiera, somigliante alla Madonna ausiliatrice di Saragozza Nostra Signora del Pilar, forse spiegabile per la presenza politica e mercantile spagnola in quel tempo in Italia. Mi ha fatto apprezzare la Pala di Ognissanti del Marinoni, un’immagine di chiesa guidata dal Papa e dai vescovi, in contrapposizione a quella voluta dall’eretico Lutero.

Esco ed entrano gli invitati, l’organo accenna alle prime note e fuori è tornato a risplendere il sole.


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