Edgar Morin è un sopravvissuto, nato quasi morto, strangolato dal cordone ombelicale, si è accanito a vivere, cercando le origini del vivere a lungo e soprattutto bene, ha attraversato quasi tutto il ventesimo secolo ed entrato nel ventunesimo per compiere il suo, di secolo, 100 anni oggi, portati splendidamente. Filosofo, sociologo, pedagogo, intellettuale a 360°, è un “grande vecchio” della cultura mondiale, teorico della società complessa, una società globale in cui sono sempre più forti gli intrecci e le interdipendenze tra le varie discipline, saperi, culture, popolazioni, problemi, e che quindi richiede grande capacità di analisi, di critica, di collegamento, di confronto e di comprensione, e che invece continua a rispondere con la disgiunzione dei saperi e delle culture, e la riduzione della complessità a risposte banali.
Appartiene ai pochissimi che non credono allo sviluppo economico come primo (se non unico) generatore di valore, e perciò è rimasto al di fuori di correnti, scuole o movimenti culturali. Ha ripreso il concetto di Michel Eiquem, signore di Montaigne, secondo il quale “è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”, una critica alla società contemporanea bombardata da informazioni che valgono solo nell’im-mediato, nel just-in-time e i like, e quindi incapace di trattenerle, analizzarle, collegarle e metterle in relazione per esprimere un proprio pensiero. Accade anche nella formazione scolastica, in cui domina la cosiddetta didattica delle competenze, non insegna le capacità esistenziali, a ragionare e criticare (nel senso di trovare il limite), ma insegna le competenze professionali dell’iperspecializzazione, a calcolare e memorizzare, spezzetta il sapere in tanti mattoncini affinchè ognuno di noi sappia quasi tutto del suo e quasi nulla di quello che gli accade attorno: “ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso per i fatti suoi”, tutti a creare un angusto orizzonte sociale che è diventato prateria di scorribande piratesche per i tanti demagoghi che, infatti, sono sbucati dal nulla un po’ dappertutto.
La sua patria non può che essere il mondo, la sua famiglia l’umanità, non si accontenta di porre la domanda di H. Jonas “Quale pianeta lasceremo ai nostri figli?” ma pone anche la corrispettiva “A quali figli lasceremo il mondo?”, e perciò propone la ricerca di un umanesimo globale che sconfigga le “passioni tristi” spinoziane, basato sull’etica della comprensione e sulla relianza, un neologismo che indica tutto ciò che unisce e rende solidali: bisogna combattere la povertà, non i poveri, troppo semplice per essere vero, umano troppo umano. Per Morin siamo una comunità di destino, nessuno può chiamarsi fuori e pensare di starsene tranquillo nel suo, la risposta alla domanda di Caino nella Genesi «Sono forse il guardiano di mio fratello?» è sì, la pandemia lo ha dimostrato, e continua a dimostrarlo, fin quando saranno vaccinati solo i paesi ricchi ma non i poveri, il virus continuerà a mutare e a girare, e la colpa non sarà né del virus, né dei paesi poveri.
Morin ha Bergamo nel cuore, il suo allievo prediletto e grande amico è il prof. Mauro Ceruti, docente universitario l’Università IULM di Milano, Preside presso l’Università di Bergamo dal 2001 al 2008: vive in città, e si è fatto promotore del libro “100 Edgar Morin”, in cui 100 firme italiane, espressioni di una molteplicità di campi del sapere, rendono omaggio al grande maestro. L’università di Bergamo è una delle tante che gli hanno conferito una laurea honoris causa. Edgar Morin, nato a Parigi cento anni fa Edgar Nahoum e diventato Morin durante la resistenza, ebreo sefardita marrano con la Spagna e Livorno nei progenitori, quindi una matrice per albero genealogico, porta nel suo dna la ricerca di connettere i saperi e le conoscenze attraverso una pratica che viene definita inter/multi/trans-disciplinare: non c’entra il derby meneghino e nemmeno il DL Zan, almeno stavolta non buttiamola in rissa.