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Sintesi della lezione di Carla Caselli al Centro Culturale delle Grazie (Bergamo) del 14 marzo 2024

I grandi scrittori sono stati grandi lettori di classici e le loro opere ne portano le tracce: “I libri parlano di libri” diceva Umberto Eco. In fondo non fanno che giocare con le stesse carte:  “Quel che si scrive è già stato detto” secondo Italo Calvino che nel romanzo Il castello dei destini incrociati crea diversi racconti combinando carte dei tarocchi (quelle della Carrara).

Lucrezio voleva diffondere il verbo di Epicuro tra la nobilitas (al genero di Silla dedica il De Rerum natura). Lucrezio era coevo di Cicerone il quale era contrario a quella filosofia che metteva in crisi lo Stato, con l’uomo romano che si sentiva civis. Ne apprezzava però la poesia come confessa al fratello Quinto in una lettera. A detta del critico Ivano Dionigi l’Epicuro di Lucrezio “era un errore anagrafico”, al posto della gens e del paterfamilias esaltava l’amicizia, per lui gli dei erano estranei alle vicende umane, all’opposto della religiosità romana concreta, utilitaristica (do ut des), gelosa delle proprie divinità.

Ancor più screditato Epicuro nel Cristianesimo. Una visione troppo materialista la sua: gli atomi, niente che ci aspetta e  tutto che finisce con la morte. Dante diceva dei suoi seguaci: L’anima col corpo morta fanno” (Inferno X). Lucrezio come Epicuro godette di dimenticanza (damnatio memoriae). San Gerolamo lo giudicava pazzo anche se aveva scritto qualcosa di buono nei pochi momenti di lucidità, pazzo a punto di togliersi la vita (sua propria manu interfecit).

La sua rinascita avvenne con l’Umanesimo. Poggio Bracciolini trovò in Alsazia un manoscritto del De rerum natura. Subito copiato e diffuso godette della mentalità scientifica nascente e dell’invenzione della stampa. Nella immensa biblioteca di Monaldo Leopardi, il padre del poeta, si trovavano ben sei “cinquecentine” (i primi libri a stampa) del De Rerum ed una traduzione in volgare nella sezione della biblioteca indicata come “libri proibiti”, di cui però  chiese per i figli regolare licenza ecclesiastica di consultazione.

Il giovane Leopardi si formò nel chiuso della biblioteca prima di “fuggire” da Recanati (1822), quasi un gesto eroico il suo, di ribellione, che lo faceva nominare “il saccentuzzo”.  Poi si spostò a Bologna che fu il suo primo laboratorio poetico, a Pisa nel momento degli Idilli, a Firenze nel circolo liberale del Vieusseux, e infine approdò a Napoli in amicizia con gli spiritualisti cattolici. Un respiro più largo avrebbe avuto Manzoni cresciuto a Milano sotto l’ala dei Verri e di Cesare Beccaria, poi a Parigi nei saloon degli Idéologues, infine campione del liberalismo cattolico.

Il poema di Lucrezio è come un fiume carsico che percorre le opere di Leopardi riaffiorando qua e là, fino all’ultima composizione la Ginestra (1836).  

In Lucrezio si respira la felicità di fare poesia. La poesia è consolatrice, aiuta ad affrontare la negatività circostante. Trasmette un messaggio del salvatore Epicuro, il primo a elevarsi dall’ignoranza e la superstizione (primum Graius homo mortalis tollere contra/ est oculos). Leopardi gli fa eco nella composizione intitolata al fiore che vedeva sulle pendici del Vesuvio, macchie gialle che ricoprivano il nero della lava, simbolo della fragranza della poesia che nasce sull’arido vero: “nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato” (La ginestra o il fiore del deserto, v. 111).

La tenebra è l’autoinganno, la luce è la verità che avanza. Con quale strumento? La ragione, dice Lucrezio, che sconfigge le tenebre e la paura dell’avvenire che attanaglia, gli uomini come “come i bimbi tremano e temono tutto nel buio (omnia caecis in tenebris metuunt).

Altro tema è la natura. Ambivalente l’atteggiamento di Lucrezio, all’inizio natura vivificante e salvifica (I Libro), alleata e corroborante l’uomo nelle fatiche, bastevole di poco per la vera felicità, liberatoria nelle sue leggi ferme che una volta conosciute la paura è ridotta. L’uomo è parte del cosmos, un ordine che ha i limiti (terminus, paletto di confine), assetato di fonti di acqua trasparente (iuvat integros accedere fontis). Nel libro finale la natura è invece maligna, o almeno estranea alle finalità dell’uomo, povero neonato sbattuto nel mondo come il naufrago sulla riva, pronta a coprire di rovi la terra che lui cerca di liberare con grandi fatiche.

Nella Ginestra la natura non è per l’uomo (non ha natura al seme / dell’uom più stima o cura ch’alla formica). Possono cambiare le condizioni ma c’è sempre la morte (e l’uom d’eternità s’arroga il vanto) e l’infelicità accompagna perennemente l’essere umano (quel che nato a perir, nutrito in pene, / dice: “a goder son fatto”). L’unico atteggiamento valido è quello di Prometeo, il coraggio di riconosce la propria condizione (confessa il mal che ci fu dato in sorte/ e il basso stato e frale), e perciò la forza di abitare il deserto come la ginestra (odorata ginestra,/ contenta dei deserti). Quanto a certi mali, si possono evitare a patto che l’uomo sappia affrontarli in solidarietà (contro l’empia natura/ strinse i mortali in social catena). Ed è un suggerimento che dobbiamo tener presente oggi.

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