Gli anziani del villaggio, nel rievocare gli inverni della loro infanzia, risalendo quindi con la memoria ai primi decenni del Novecento, considerano due fenomeni climatici che caratterizzavano l’ultima, o se si vuole la prima, stagione dell’anno: la neve e il freddo. Nevicava molto, allora, pìle de nìv, e nelle contrade ‘mpó al roèrs, quelle meno esposte al sole, la prima embiancàda arrivava puntuale il mese di novembre, mentre prati e campi tornavano ai loro colori solamente allo sciogliersi dell’ultima neve di marzo, anche ad aprile negli anni più difficili. La natura riposava veramente e non subiva quegli sbalzi termici, cui assistiamo al giorno d’oggi, poiché le stagioni – ci dicono – avevano un corso regolare e costante negli anni. Quanto al freddo, poi, fatta eccezione per poche giornate, ormai l’inverno trascorre quasi senza accorgercene. Gli anziani sono consapevoli del fatto che, allora, il freddo si percepiva di più anche in considerazione dell’abbigliamento scarso o inadeguato e della difficoltà di riscaldare le vecchie abitazioni, fatta eccezione per ol locàl dol camì e per la stalla.
Attualmente il rialzo termico globale fa sì che, nelle vallate prealpine delle Orobie, la neve faccia solo veloci e leggere comparse, senza caratterizzare per lungo tempo il paesaggio. Encö e l’fiòca bèle piö, affermano i meno giovani, ai quali viene spontaneo il confronto con i tempi passati. Ci stiamo avvicinando ai dé de la mèrla (i giorni della merla) di fine gennaio, che dovrebbero essere i più freddi dell’anno, ma le giornate soleggiate e la neve lontana sulle alture disegnano all’intorno un paesaggio fiorito quasi primaverile e quanti sono impegnati nei lavori all’esterno iè entùren en camìsa. La leggenda (nella versione tramandata nel villaggio) narra che, molto tempo fa, una merla dal bellissimo piumaggio bianco, colpita dal freddo intenso di un rigido gennaio, trovò riparo in un camino fumante e vi restò nascosta per alcuni giorni. Passato il grande freddo, i primi giorni di febbraio tornò nel bosco ma, a causa della calöden dol camì, il suo bel piumaggio candido si era tutto annerito. Da quell’evento in poi, tutti i merli nascono con le piume nere, fatta rara eccezione per alcuni merli albini, che ci riportano alla condizione originaria del noto volatile. Attenti com’erano a cogliere e a prevedere l’evoluzione degli eventi metereologici, dal quali dipendeva in gran parte la fortuna dell’annata agraria e del lavoro dei contadini, i valligiani cercavano di interpretare i vari elementi naturali, elaborando e tramandando interpretazioni costanti nel tempo. Si diceva, ad esempio, che, se i giorni della merla erano particolarmente freddi, la primavera sarebbe stata mite; oppure, qualora fossero stati caldi, la primavera si sarebbe fatta attendere. Le famiglie incominciavano a programmare i primi lavori, predisponendo un lungo elenco delle cose da fare, con le priorità, nel momento in cui la neve si fosse fatta da parte. Intanto, però, quel soffice manto nevoso teneva a freno le diverse attività campestri e forestali.
I bambini della contrada avevano tempo de endà a sletà, nei momenti liberi dagli impegni domestici nella casa e in stalla, utilizzando rudimentali slitì, costruiti dai più grandicelli, utilizzando dù bastù ‘mpó grossècc, fàcc dó col corlàss, con enciodàcc sura de spassöi. L’abilità stava soprattutto nel dare stabilità e solidità al divertente mezzo di trasporto per una, al massimo due persone, alto da terra poco più di dieci centimetri, e nel sagomare una forma leggermente arcuata al davanti dei due bastoni paralleli di appoggio della slitta sulla neve, anche per evitare di sbattere contro le renèle sporgenti della caalìra. Solamente più tardi, negli anni Settanta, i più fortunati si presentavano con le slitte “moderne”, crompàde dó al mercàt, molto più alte, sulle quali si poteva slittare seduti comodi, non più rannicchiati come per terra, o addirittura distesi. A gennaio, i bambini che, tutte le mattine, partivano in gruppo dalla contrada Canito per raggiungere la scuola elementare, dovevano percorrere a piedi più di un chilometro di mulattiera selciata: la prima metà era tutta in discesa e, dalla Còsta de Canìt sino alla Al de Spàdola, oltrepassando la Tribulìna dol Vengiö, si percorreva con lo slitì. Quante volte si arrivava a scuola bagnati fradici e col begarlì ströcc. Ne valeva comunque la pena e nessuno di noi si lamentava per questo. Ci si riscaldava un pochino attorno alla stufa, che la pòera pustìna, incaricata dal Comune, aveva preparato accesa e ben rifornita di ovuli di carbone coke pressato. Al ritorno da scuola, poi, nel primo pomeriggio, ciascuno di noi trascinava il proprio slittino di nuovo sulla Còsta, perché sarebbe servito ancora l’indomani.
A casa c’era la mamma ad attendermi, ma il mio rifugio preferito era presso l’abitazione del nonno, dove la nonna, a la malparàda, anche quando non ero atteso, mi trovava sempre qualcosa da mettere sotto i denti, improvvisando magari ü ciarighì, oppure proponendomi öna fèta de polénta ancora calda sulla quale spalmare ‘mpó de zöcher o ü cögià de marmelàda. Chi non aveva lo slittino, si accontentava de ü tochèt de plàsteca, oppure, all’insaputa dei genitori, si sedeva addirittura sö la sachèla di tela cerata, che era la nostra cartella. Andare a scuola significava ‘ndà a sletà, anche se gli anziani e le donne della contrada non volevano che si slittasse sulla mulattiera, perchè in pochi giorni quella strada si sarebbe trasformata in una lastra di ghiaccio, diventando quindi pericolosa e impraticabile per quanti – soprattutto gli adulti – dovevano ‘ndà a mèssa, fò a la bütìga o dal dutùr. Quando poi la mamma, nella seconda metà degli anni Sessanta, ha separato la sua famiglia da quella grande del nonno, andando ad abitare in un appartamento nuovo di pacca, nella grande casa fò a la Césa, nel centro del villaggio, che il nonno e i suoi figli avevano costruito con le rimesse provenienti dal loro lavoro in Svizzera, le cose iniziarono a cambiare velocemente e il distacco da quel mondo di contrada, e dalle complicità che lì si erano create, non fu certo indolore. A sletà e s’vàa fò pus a la Césa, nel prato esposto a Nord, di proprietà di Ubaldo Cassi (Disperso in Russia), a fianco della chiesetta dei morti, ma non era più la stessa cosa: c’era sì il divertimento, ma mancava l’avventura e la parte creativa del fare e dell’inventare un percorso. E poi il mio gruppo di amici era rimasto a Canito. Le contrade, allora, esercitavano ancora una formidabile capacità di attrazione: bambini e ragazzi, ma anche le persone adulte, si identificavano nella contrada di appartenenza, che agiva come contenitore esperienziale e spazio per la trasmissione di relazioni, abilità, professioni. I bambini – che allora ritenevamo essere i più fortunati – giungevano nel prato con i bob in plastica dura, rossi fiammanti come tante Ferrari, pronti a sfidare qualsiasi tipo di neve in velocità, ma con quelli sì che ci si faceva male… La velocità aveva preso il sopravvento!
Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna