Il calciatore Vincenzo D’Amico è morto a 68 anni. Campione d’Italia nel 1974 con la grande Lazio di Maestrelli e Chinaglia, bandiera biancoceleste per sedici anni (dal 1971 al 1986 con solo una breve parentesi nel Torino) con ben 336 presenze e 49 gol-. Il ricordo.
Quando senti certe notizie, in noi ingrigiti scatta l’amarcord, il nastro della vita ti passa davanti e la nostalgia s’impossessa di te. Oggi è uscito dal campo Vincenzo D’Amico, non giocava per la mia squadra del cuore, ma in ballo c’è molto di più, c’è un mondo col quale sei cresciuto e che non c’è più, di cui faceva parte un calcio coi suoi interpreti e valori per cui valeva la pena tifare e condividerne gioie e dolori.
Allora non c’erano tante evasioni, un prato su cui rincorrere un pallone era il nostro desiderato pane quotidiano, quando poi per chissà quale caso ci capitava di giocare su un campo con anche le porte (anche senza reti), beh, allora era superfesta, ci sembrava di essere più simili ai nostri eroi. Era la tv in bianco e nero, due soli canali, io ragazzino (e tutta la tribù degli sportivi) attendevo impaziente la domenica pomeriggio per sentire alla radio “Scusa Ameri” – “Scusa Ciotti– e poi guardarmi 90° minuto e godermi il resoconto del pomeriggio (tutte le partite erano in contemporanea), e poi aspettavo il mercoledì di coppa, uniche due concessioni al gioco, per i tantissimi come me, più bello del mondo. Vincenzo D’Amico era un elegante moschettiere che tirava di fino, ballava col pallone, un talento sopraffino ideale espressione del bel calcio, di quel calcio, molto meno del calcio dei rigidi schemi degli anni a venire (chiedere, ad es., a Roberto Baggio o Zola per informazioni).
Esordisce con la Lazio in serie B a soli 17 anni, poi si rompe, e due anni dopo, nel 74, a 19 anni contribuisce da protagonista al primo scudetto della Lazio e ne diventa il Golden boy, non avesse avuto il grave infortunio probabilmente l’avrebbe vinto già l’anno prima, risparmiando al Milan il rimpianto della fatal Verona e alla Juve uno scudetto vinto a pochi minuti dalla fine proprio su Milan e Lazio, entrambe sconfitte e superate sul filo di lana dai bianconeri. Maestrelli, l’allenatore capace di estrarre il massimo da una squadra divisa in clan, gli sequestrò la patente per impedirgli che la sera andasse in giro per ragazze, e gli faceva versare i soldi dello stipendio su un conto corrente vincolato a suo nome, in modo che non avesse la tentazione di scialacquarli.
Una volta durante un Inter-Lazio a S. Siro, rise ad un tunnel subìto da Chinaglia, e Long John gli rifilò, davanti a tutto lo stadio, un calcio in culo. Esempi dei tantissimi motivi per cui a quel calcio dedicavo volentieri le mie attenzioni e le mie energie, a differenza di quello attuale, per il quale provo solo disgusto. Quella Lazio scudettata fu perseguitata da una serie incredibile di morti, a cominciare da mister Maestrelli, solo due anni dopo lo scudetto, la più assurda quella di Luciano Re Cecconi, il Netzer laziale freddato da uno sparo di pistola di un gioielliere in una fredda giornata di gennaio del 77: i media non erano sempre ed ovunque come oggi, eppure quella notizia raggiunse e impressionò tutti.
D’Amico esordi in serie A in una partita contro la Samp, sostituendo proprio Re Cecconi, oggi la staffetta si chiude, si ritrovano entrambi oltre la linea, di sicuro gli chiederà di come andò davvero quel giorno in gioielleria, e con gli altri ricomporrà una squadra che probabilmente è stata troppo bella ed originale per non suscitare l’invidia degli dei. R.i.p.