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Il dualismo cartesiano rappresenta un pilastro del suo sistema teoretico. Abbiamo detto che la facoltà pensante e dubitante rappresentata dal pensiero umano è per Cartesio l’unica verità immediatamente evidente, il resto, tutto ciò che è fuori dal nostro pensiero puro non è altrettanto evidente e pertanto deve esser vagliato con il metodo matematico di cui Dio è garante.

Per questo motivo, sebbene con il dubbio metodico Cartesio ci ha insegnato a dubitare di qualsiasi cosa non sia la nostra consapevolezza di pensare, lo stesso filosofo arriva comunque ad ammettere che qualcosa al di fuori del nostro io deve necessariamente esistere. Il mondo non è e non può essere soltanto pensiero puro, e affianco alla sostanza pensante (costituita dall’io) si deve ammettere la presenza di una sostanza corporea, qualcosa di materiale e di esteso. Infatti, per Cartesio, i corpi  hanno delle qualità dubbie, come il sapore, l’odore, la consistenza, il suono (che sono determinazioni qualitative o sensibili), ma anche,delle qualità (che invece sono determinazioni quantitative) come, ad esempio, la misura, il peso, la quantità, la durata, che al contrario sono certe e indiscutibili.Per il filosofo solo queste ultime sono delle evidenze e quindi caratteristiche indiscutibili della sostanza. Le determinazioni qualitative invece non trovano riscontro immediato nella realtà ma sono “mediate” dai sensi. Da tutto ciò ne deriva che per Cartesio la prova dell’esistenza dei corpi non deriva dalla percezione che abbiamo dai sensi, ma dal fatto che possono essere misurati, pesati, numerati, ecc.. Sono proprio  le qualità quantitative a dimostrarci che i corpi esistono.

Nell’estratto che segue, preso dalle Meditazioni, Cartesio propone la distinzione tra proprietà oggettive e proprietà soggettive della materia. Prendendo ad esempio la cera Cartesio cerca di dimostrare come le qualità sensibili come odori, sapori, ecc., sono puramente soggettive, mentre le proprietà quantitative, come l’estensione, sono oggettive. Ebbene, a fini conoscitivi, le prime possono anche mancare ma non le seconde che sono attributi senza i quali i corpi non potrebbero essere pensati come tali.

Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancor la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo.

Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la cera resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può essere niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovan cambiate, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella della dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere quest’infinità  con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare.

Ma che cos’è questa estensione? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Nè io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa è la cera, se non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa e ancor più evidente. Ora, qual è questa cera, che non può essere concepita se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un immaginazione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente (solius mentis inspectio), la quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta.

Tratto da R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Opere, cit., vol. I, pp. 210-212

In questo modo il filosofo ha diviso la realtà in due sostanze ben distinte: la sostanza pensante (res cogitans) ossia il pensiero puro che è senza tempo e spazio, quindi libero e volontario, e la sostanza estesa (res extensa) che invece impegna uno spazio, ha una durata, inoltre è involontaria e per questo meccanicamente determinata da altro.

Una volta divisa la realtà in due sostanze ben distinte, il problema che dovette affrontare Cartesio,  fu quello di spiegare come fosse possibile creare una relazione e il rapporto scambievole fra due sostanze così differenti. Una relazione che peraltro non è soltanto tra il nostro pensiero e le cose del mondo, ma anche, e soprattutto, tra il primo e il nostro corpo, fra la coscienza (o anima) e il corpo. Noi infatti non siamo né solo anima, né solo corpo, ma l’unione di essi. L’uomo rappresenta l’unica entità al mondo che nasce dall’unione tra pensiero e corpo, quindi, tra res cogitans e res extensa.

Bisogna fare una premessa: per Cartesio il corpo non è qualcosa di vivente (secondo la visione omerica) ma è meccanico, il corpo è una macchina guidata dai nervi, dai tendini e dai muscoli e per questo nettamente separato (come già affermava Platone) dall’anima.

Ed in verità si può benissimo paragonare i nervi della macchina che vi descrivo ai tubi delle macchine di queste fontane; i suoi muscoli e i suoi tendini agli altri diversi congegni e molle che servono a muoverle; i suoi spiriti animali all’acqua che le muove, di cui il cuore è la fonte e le concavità del cervello sono i castelli. Inoltre, la respirazione e altre siffatte azioni che sono per essa naturali e ordinarie e che dipendono dal corso degli spiriti, sono come i movimenti di un orologio o di un mulino che il corso ordinario dell’acqua può rendere continui. Gli oggetti esterni, che con loro sola presenza agiscono contro gli organi dei suoi sensi, e che con questo mezzo la determinano a muoversi in parecchie maniere diverse, secondo la disposizione delle parti del suo cervello, sono come degli estranei che, entrando in alcune delle grotte di queste fontane, causano essi stessi, senza pensarvi, i movimenti che vi si fanno in loro presenza.

L’uomo, in Opere scientifiche, vol. I, a cura di G. Micheli, Utet, Torino 1966, pag. 732

La biologia cartesiana, come del resto anche la fisica, ha quindi un carattere meccanicistico, e il corpo dell’uomo ridotto a robot è per il filosofo francese sostanzialmente simile a quello degli animali, che sono solo corpi meccanici senza pensiero. Se non avessimo la facoltà pensante saremmo identici alle bestie, alle piante e a qualunque altro fenomeno della natura che agisce per automatismi, sostiene Cartesio, e anche l’uomo al pari di qualsiasi altro fenomeno naturale sarebbe governato dalla necessità causale, ossia dal principio di causa effetto, e da questo non scapperebbe, nessuna autonomia, nessun libero arbitrio. Ma il pensiero, è quella esclusiva umana che ci rende liberi, liberi di pensare e di fare, di modificare il mondo, di dominare la natura.

Quindi, vista la radicale opposizione tra lo spirito, immateriale e fondamentalmente libero, e il corpo, materiale e soggetto alle leggi causali, come possono interagire all’interno del nostro essere due parti così opposte? Cosa c’è in noi che ci consente tale interazione?

Cartesio pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (quella che oggi si chiama epifisi) secondo la quale avremmo una sola parte del cervello, la ghiandola pineale appunto, che non è doppia (il cervello ha due emisferi) e che avrebbe la funzione di unificare la moltitudine di sensazioni che vengono dagli organi di senso (che sono  anche questi sempre doppi, gli occhi, le orecchie, le mani, le narici) mettendole in connessione con il pensiero.  La ghiandola è proprio il luogo (l’unico nell’universo) nel quale il corpo interagisce con il pensiero, la res extensa incontra la res cogitans. Io ho due occhi, due mani, due narici, da essi mi arrivano tanti input: la bottiglia che sto vedendo è di vetro, è fredda, è grande, è piccola, ecc. la ghiandola unisce tutti questi segnali facendomi vedere un’unica cosa (ho due occhi ma non vedo due bottiglie, ne vedo soltanto una perché la ghiandola sintetizza la molteplicità dei segnali che arrivano al mio cervello). La teoria della ghiandola pineale è stata molto criticata. Anche qui Cartesio pensa di trovare una soluzione semplice a un problema che certamente semplice non è. Torneremo più avanti sulle critiche rivolte dai pensatori successivi.

Autore

Enrico Valente

Enrico Valente è nato a Torino nel 1978 dove si laurea in giurisprudenza nel 2004. Da oltre vent'anni si dedica allo studio e alla ricerca filosofica e da alcuni anni affianca la passione per la scrittura alla traduzione di saggi e romanzi. Con ”L'arte di cambiare, da bisogno a desiderio dell'altro” la sua opera di esordio, vince nel 2021 il primo premio al Concorso nazionale di filosofia ”Le figure del pensiero”, nello stesso anno riceve per la medesima opera la menzione d'onore al Premio di arti letterarie metropoli di Torino e arriva finalista al concorso di Città di Castello. Attualmente è impegnato alla preparazione di una collana intitolata ”Incontri filosofici” dedicata ai grandi protagonisti della filosofia che sta ricevendo un notevole riscontro da parte del pubblico ed è in corso di traduzione all'estero. Il suo primo numero “Il mio primo Platone” è arrivato finalista al concorso nazionale di filosofia di Certaldo (FI) 2022.

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