Cartesio era talmente ossessionato dal dubbio che venne chiamato “filosofo del dubbio”. Il suo metodo aveva proprio lo scopo di elaborare un processo conoscitivo che sospende ogni conoscenza “tacciando” come probabilmente falso tutto ciò su cui il dubbio si insinua. Là dove c’è la verità non può esserci il dubbio e dove è presente il dubbio non può esserci alcuna verità, sosteneva Cartesio.
Fu proprio nel persistere in questo atteggiamento di critica radicale che il filosofo giunse ad un principio che ritenne saldissimo e di tale rilevanza da poter servire da fondamento a tutte le altre conoscenze. Tale principio costituirà la giustificazione del metodo (per questo si parla di dubbio metodico) ed è il seguente: per potere elaborare un metodo universale e valido occorre sospendere ogni giudizio di verità mettendo in dubbio qualsiasi cosa e ritenendo possa essere falso ciò che davanti ai miei occhi resta anche parzialmente indecifrabile e avvolto anche in minima parte nell’oscurità.
Cartesio è quindi consapevole che nessun grado o forma di conoscenza può o deve sottrarsi al dubbio. In primo luogo, per il filosofo, ciò di cui è necessario dubitare è quella parte della conoscenza che deriva dai sensi. I sensi non sono affidabili, ci ingannano, ci allontanano dalla verità e non sono molto distanti dalle sensazioni provate nei sogni (anche se, afferma Cartesio anche nei sogni ci sono conoscenze che restano vere comunque, come ad esempio le verità matematiche, due più due fa sempre quattro, nella veglia come nei sogni).
Ma se invece andassimo oltre e ci lasciamo trascinare nel pessimismo più radicale non limitandoci a mettere in discussione soltanto i nostri sensi ma anche qualsiasi evidenza, pure la più evidente delle evidenze come quella matematica, o, ancor peggio, guardassimo la nostra vita come un’illusione, un sogno dal quale non ci sveglieremo mai voluto da una potenza maligna che si sia proposta di ingannarci facendoci apparire il nostro mondo come concreto e reale mentre è pura finzione, semplice inganno?
Allora non sarò più certo nemmeno che in questo momento sono seduto su una sedia, che ho un libro in mano, che sul tavolo ci sono due penne, una rossa una nera, e che la finestra del soggiorno è aperta e sento gli usignoli cinguettare.
Se ipotizzo non solo che qualsiasi cosa davanti ai miei sensi possa essere diversa da quella che realmente è, ma, anche, che qualsiasi evidenza (matematica, fisica o geometrica) possa essere non vera, allora il mio dubitare non è un mettere in discussione ogni fonte di conoscenza con criterio, razionalità e scetticismo, ma, bensì, (e qui introduciamo il “dubbio iperbolico”) diffidare di qualsiasi possibile conoscenza, anche la più evidente delle evidenze tacciandola come possibile illusione (come se fossi il burattino di un genio maligno che mi manovra a suo piacimento), quindi un dubbio degenerato, irrazionale ed elevato all’ennesima potenza.
Ma è proprio di fronte a uno scenario così pessimistico che Cartesio trova una via di salvezza. In un mondo fatto di incertezze e illusioni, proprio il carattere così radicale di questo dubbio, ci consente di accorgerci che una certezza esiste, una sola, ma c’è. Infatti, nell’ammettere la dubbiosità di ogni mia sensazione o conoscenza, nell’accogliere l’ipotesi che la mia vita possa essere semplicemente un sogno, proprio nel dubitare qualsiasi cosa, non mi è possibile negare in modo assoluto che esisto, perché solo chi esiste può dubitare, solo chi esiste può essere illuso e ingannato.
Questa evidenza però richiede una precisazione: non posso dire di esistere come corpo, innanzitutto perché il corpo non può dubitare, ma anche perché il corpo è qualcosa di esterno a me, al mio Io (e quindi non immune dal dubbio) mentre il pensiero è parte di me e da me non separabile. Io posso esistere, e solo in questo costituisco qualcosa di assolutamente certo e indubitabile, solo come essere che dubita, ossia che pensa. Cogito ergo sum, penso dunque sono.
Insomma, l’unica certezza che posso ottenere nella vita, inscalfibile di fronte a qualsiasi dubbio, non è la conoscenza delle cose che proviene dai sensi, “dubbio metodico”, e neppure, in fondo, l’evidenza delle certezze matematiche (dimensioni, peso, forme, ecc.), perché, per quanto non esista nulla di più evidente, potrebbe esistere un genio maligno che mi inganna pure su di esse, “dubbio iperbolico”, ma la certezza di esistere che proviene dalla mia capacità di dubitare, di mettere in discussione qualsiasi cosa, nonché, in sé, di provare sensazioni. Questa è l’unico punto fermo al quale è pervenuto Cartesio, il cardine della sua affascinante teoria.
Ad esempio, posso essere certo che sto pensando ad una sedia, ma non che quella davanti a me sia veramente una sedia. Posso essere sicuro che sto provando dolore, ma non che quello che mi sono tirato sul dito sia un martello, posso essere sicuro di provare odio, ma non che esista la persona che non posso proprio sopportare. La mia esistenza di soggetto che pensa e che sente è certa, ciò che non sono certe sono le cose che penso o che mi procurano delle sensazioni.
Dunque il dubbio metodico e quello iperbolico mi hanno portato ad un’unica certezza, una sola verità inscalfibile: la certezza che esisto come pensiero. Il mio pensiero è certo ma tutto ciò che è al di fuori di esso non lo è (il corpo, le cose del mondo) per questo soggetto ad ipotesi, dubbi, supposizioni.
Riportiamo un estratto preso da Meditazioni metafisiche, in esso è indicato il percorso seguito da Cartesio per giungere alla prima verità assoluta, quella del cogito ergo sum, quella di esistere come pensiero.
La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non c’è nulla di certo. […]
Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito (chimerae). Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.
Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testè ho giudicato incerte, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non c’è forse qualche Dio, o qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito. […]
Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono alcuni che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cercassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o di esistere: io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar con precisone, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. […]
Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente.
Tratto da R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Opere, cit. vol. I, pp. 205-209