Lo scrittore greco Senofonte si ritrovò generale all’indomani della vittoriosa battaglia di Cunassa (401 a.C.). Ciro che aveva assoldato mercenari greci con l’intenzione di sostituirsi al fratello nella conduzione dell’Impero persiano rimase però ucciso. I greci cercarono allora la via di casa in una marcia resa celebre dal racconto di Senofonte Anabasi. Un ritorno difficile e pieno di insidie che durò un anno. Finalmente in vista del mare – thalàtta! thalàtta ! il mare! il mare! fu l’urlo delle avanguardie – trovarono la strada per la salvezza sbarrata dagli abitanti di quella striscia di terra, i Macroni, allarmati dalla comparsa di un esercito di diecimila uomini.
Lo scontro fu evitato per l’intervento di un soldato greco propostosi come mediatore. Lui conosceva quella lingua che sembrava tanto barbara e ostile, gli era familiare perché per vicende familiari era stato strappato da quella terra. Lo scontro fu evitato e i Greci tornarono in patria. La lingua può dividere o unire.
Erodoto nelle Storie racconta a sua volta che arrivato in Egitto trovò facilmente interpreti. Aveva bisogno di qualcuno che gli leggesse le iscrizioni delle piramidi. Là in Egitto l’interprete era un mestiere. Il faraone stesso aveva assoldato ben prima di questi altri greci per insegnarlo ai loro giovani avviati alla carriera burocratica. Lo stesso impero persiano si avvaleva di interpreti visti i numerosi scambi commerciali che si svolgevano nel suo multietnico territorio.
Dai Greci la parola barbaro fu all’inizio usata come termine onomatopeico, barbaro è chi balbetta, fa bar-bar, parla in modo strano, incomprensibile. Non si trova il termine barbaro in Omero, a detta di Tucidide che ne dà una spiegazione: i Greci non si sentivano ancora nella necessità di distinguersi dagli altri, vivevano tra greci. Omero stesso però a proposito dei Cari, una popolazione sud occidentale dell’odierna Turchia, li chiama “barbarofoni” perché pur imparentati coi Greci parlavano male il greco.
In piena età ellenistica il greco divenne lingua comune (koiné) e il termine barbaro assunse un senso spregiativo: fu usato prima dai Greci nei riguardi dei Romani, poi dal mondo greco-romano verso chi ne stava ai margini, i Barbari appunto. Il concetto è relativo alla coscienza che si ha di sé e degli altri.
Era più aperta la concezione di sé in epoca arcaica quando non c’era riluttanza nel venire a contatto con altri popoli e altri linguaggi. Il Mar Egeo su cui si affacciava la Grecia con le sue miriadi di isole abbracciava in pochi chilometri tre continenti. Il navigante non aveva paura di perdersi, trovava sempre dei punti di riferimento. Era un mare che sollecitava l’incontro. La facilità degli scambi commerciali metteva a disposizione materiali, prodotti e tecniche che arricchivano e costringevano ad aprirsi. Altri mercati o prodotti significavano altre culture, altri linguaggi, e con le merci circolavano parole, con le parole le idee.
Circolava una simile mitologia. A proposito del racconto biblico del Diluvio universale, Noé che costruisce l’arca e salva sé la sua famiglia con i viventi attorno, fu scoperto in Mesopotamia (1872) un poema di contenuto simile su steli dai caratteri cuneiformi.
I grecisti trovarono nella Saga Gilgamesc evidenti somiglianze con i poemi omerici. Si parla dell’eroe viaggiatore e del nemico poi amico Enkidu, le prove che insieme affrontano per combattere il male, la morte dell’amico che Ghilgamesch è incapace di proteggere (“soffrì come una leonessa che protegge i cuccioli”), le peripezie per riportarlo in vita. Similitudini per contenuto e per forma.
Con la Grecia all’apice della sua storia, dopo le Guerre Persiane, nasce la grecità, un sentirsi greci per sangue lingua religione culto usanze. Mancava solo il riferimento alla terra, impossibile data la configurazione geografica. Il greco attico sarà il greco per antonomasia, quella lingua su cui ci siamo misurati nei nostri Licei.
Diversi perciò sono i profili dell’altro. Per i Greci barbaro è lo straniero come poteva essere un persiano; xenòs è il greco di un’altra città greca; metèco è chi abita ad Atene ma non è cittadino a tutti gli effetti, come si dichiarava lo stesso Aristotile. I tragici o commediografi mettono in scena lo straniero con un linguaggio imbastardito. Aristofane carica il loro parlare come facciamo noi con i tedeschi nei film. In tribunale lo straniero è costretto a discolparsi portando un liberto che parla in sua vece. Gesti e parole dello straniero sono derisi e paragonati a quelli dell’animale.
I Greci, a differenza dei Romani, non sono grandi traduttori né li hanno. Il loro lessico per indicare il tradurre è povero a differenza di quello latino (vertere, traducere, convertere). Il loro è stato a lungo un mondo etnocentrico.
Lentamente hanno sviluppato i primi vocabolari. Prima per spiegare termini caduti in desueto e non più comprensibili col passare del tempo; poi vocabolari per le parole straniere che entravano nel linguaggio comune; infine lessici veri e propri che aiutavano a capire e parlare lingue straniere.
Si sono trovati su papiri elenchi di parole latine trascritte in caratteri greci e a fronte il significato greco corrispondente.
I Greci seppero però osservarsi secondo quanto gli altri li vedevano. Interessanti al riguardo sono le cosiddette Lettere di Anacarsi, attribuite ad un leggendario personaggio scita. Un espediente letterario simile a quello di Montesquieu che criticava i costumi francesi con gli occhi di un persiano (Lettere Persiane).
Qualche pensiero tratto dalle lettere ne rivela l’acutezza e l’attualità. “Mi deridete perché non parlo bene il greco? Non è importante, o Ateniesi, come suona il discorso ma ciò che si intende dire”. “Al mercato non esitate forse ad acquistare da stranieri se è a buon prezzo?”. “Siete un padre di famiglia e disprezzate lo straniero per come parla? Attenzione! Vi può capitare in famiglia di fare qualche errore, e allora moglie e figli si sentiranno legittimati a non ascoltarvi più”.
A Solone che rifiutava di dare ospitalità a lui Scita: “Mi hai respinto. Secondo te dovevo cercare ospitalità al mio paese. Non mi pare giusto, o Solone. Lo sdegno che ho provato mi induce a tornare alla tua porta, non a chiederti di nuovo ospitalità ma a domandarti spiegazione su ciò che intendi tu per ospitalità”.
Sintesi della relazione di Luciano Bossina
LINGUA E IDENTITÀ. IL RAPPORTO DEI GRECI CON LE LINGUE ALTRUI
Bergamo, Auditorium Liceo Mascheroni, 11 febbraio 2025
all'interno del Programma Noesis 2024/2025