Biondi immobiliare

Auguri a tutti i lettori di buone feste e buon anno nuovo. Di seguito trovate il regalo che faccio agli amici, frutto del mio lavoro. Preferisco fare così che entrare in un negozio qualsiasi, comprare un oggetto qualsiasi e sgravarmi così la coscienza.

Il 2024 si prospetta come un anno interessante, in cui il progresso tecnologico metterà a disposizione dell’umanità prodotti in grado di risolvere tanti problemi. L’umanità saprà trarne effettivo vantaggio? Forse no, almeno a giudicare dal modo in cui tanti hanno utilizzato finora dispositivi potentissimi (foto di gattini sui social, per esempio…). Viene in mente una maledizione che in Cina si lanciava ai nemici già diversi secoli prima del nostro anno 0: possa tu vivere in tempi interessanti, pieni di guerre, epidemie, disastri naturali. Ma d’altra parte sono questi i tempi in cui ci capita di vivere. Sta a noi renderli tempi belli. Auguri a tutti

Il regalo che volevi

Alcuni anni fa il regalo che ricevetti per Natale fu, be’, quello. Quello che aspettavo da tanto tempo, per cui avevo lavorato molte più ore di quante avevo messo in programma. Eccetera.

Divenni finalmente il direttore.

D’altra parte non c’era rimasto più nessuno, davanti a me. Il vecchio direttore era andato in pensione, quasi tutti i colonnelli residui erano stati provati al suo posto o si erano sparpagliati nelle aziende concorrenti – e in diversa misura avevano fallito. Oppure era fallito il mercato editoriale per il quale ci eravamo preparati, quando eravamo giovani pieni di speranze e di idee più o meno confuse.

Nessuno leggeva più, dicevano i dati di vendita. Tuttavia loro si ostinavano a fare giornali, a rinnovarli graficamente, a smanettare coi contenuti. Ma col tempo sempre meno persone leggevano. Eccetera.

Adesso toccava a me. Finora avevo semplicemente aspettato. Così ero arrivato vicino alla cima e… adesso avrei potuto fargliela vedere io.

Tra i primi a saperlo fu il Nic. Il figlio di Bea. Suo padre era uno dei membri del consiglio d’amministrazione, Nic stesso aveva una bella strada spianata davanti in qualità di erede di talento. Io per lui ero l’amico di famiglia con il quale chiacchierava delle magnifiche sorti e progressive, del futuro del nostro mestiere, delle modifiche necessarie alla luce delle nuove tecnologie informatiche e degli sviluppi del business. Tutte parole che finora erano volate nel vento – dato che eravamo, per motivi diversi, in seconda linea. Senza vero potere decisionale.

Adesso, forse, le nostre discussioni potevano diventare fatti concreti. Poteva toccare a noi, a me per anzianità, a lui per prospettiva.

Nic mi telefonò per complimentarsi della nomina. «Ti hanno fatto il regalo che volevi» disse. Gli risposi con qualche battuta facile, tipo quella che occorre fare attenzione a quel che si desidera, perché potrebbe realizzarsi. Lo invitai a pranzo. Forse era il nostro primo pranzo di lavoro serio, meno piacere di trascorrere del tempo insieme e più pianificazione di… beh, qualcosa.

Mi domandò se doveva estendere l’invito anche a sua madre. Gli dissi di no.

Bea. Qualche anno fa il solo cenno al suo nome mi avrebbe mandato su di giri. Eravamo giovani, forse non sciocchi ma nemmeno saggi. L’avevo corteggiata, sembrava interessata. C’erano altri, naturalmente. Ci sono sempre. A un certo punto uno degli altri, Corrado, volle fare un po’ più sul serio.

«È quello che vuoi?» le domandai. Mi rispose con tutti i segnali possibili al di fuori delle parole. Un sorriso, un modo che aveva lei di muovere la testa, un frullo delle dita nell’aria, la mano che carezzava i capelli. Tutto un po’ ambiguo tranne la sola frase che avrei capito bene: «Tu no, lui di più».

Corrado partiva da una condizione di vantaggio. Era il rampollo di una famiglia storica. Rispetto a me aveva troppi vantaggi. Vivevamo all’apparenza nello stesso mondo, respiravamo la stessa aria. Ma.

Avevamo interessi simili, frequentavamo la stessa scuola da compagni di banco, facevamo gli stessi discorsi pieni di integrità morale. Pareva perfino che sognassimo gli stessi sogni, professionali e personali. Ma.

Evidentemente non era così.

Il padre di Nic divenne lui. E io finii con il lavorare nella sua azienda. Uno di quelli assunti per la bravura, eh… però anche amico del capo.

Nei giorni del suo matrimonio con Bea lo domandai anche a lui, se era ciò che voleva. «», rispose deciso. Niente ambiguità, nel suo caso.

Il pranzo con Nic scorreva fluido. Più che di lavoro intendeva parlarmi di una cosa successa a un suo compagno di università. Gli avevano offerto un lavoro, avrebbe dovuto coordinare un gruppo internazionale di investitori nel trading online. Impegno continuativo, investimento zero, guadagno potenziale assurdo – partendo da un ingaggio già parecchio alto. «Sembra l’ideale, no?» domandai, soprattutto per un giovane esordiente con un solido curriculum di studi.

«Non è quello che vuole lui» disse Nic. Il suo amico voleva ben altro. Voleva una vita felice, addirittura. Guadagnando cifre magari schifosamente inferiori, ma in cambio di tempo e cultura. «In cambio di vita, sai no? quella cosa che sembra non esserci più. Quella cosa impossibile».

Nic sbuffava quando affrontava certi discorsi. Questa cosa che stava chiedendo per un amico interessava molto anche a lui. In quel periodo stava frequentando il suo penultimo anno di università, forse (perché magari non lo avrebbe nemmeno concluso). Quello successivo sarebbe stato l’ultimo. Forse.

«Come a te con il tennis?» gli domandai. Nic aveva smesso di giocare a tennis un paio di anni prima, all’improvviso. L’evento scatenante era stata una partita con un americano, in un torneo tra promesse. Ma l’americano già girava il mondo con un team che credeva nel suo talento, mentre Nic era andato al massimo in Spagna per partecipare a un tour minore. Perse quella partita, e probabilmente altre con ragazzi ancora sconosciuti, senza quasi toccar palla.

Nic faceva parlare il corpo più che la bocca. Diceva e non diceva, soffriva mostrando sollievo. «Il tennis mi viene facile, ma in effetti gioco come uno dei tanti». Me ne aveva già parlato, ne aveva parlato con suo padre. Intorno al tennis girano molti soldi e lui aveva qualche prospettiva di poterne guadagnare. Sebbene non al livello massimo. Un bel po’ sotto il massimo, fatti salvi infortuni e altre sfighe. «Non è quello che voglio» sbuffava.

Evitai di domandargli cosa voleva, perché non lo sapeva. Era ancora giovane, con ancora tempo per scoprirlo. La sua famiglia l’avrebbe sostenuto in ogni caso. Alla peggio il fatto di essere erede di un’azienda gli avrebbe risolto le cose. Forse, perfino, tempo una trentina d’anni, avrebbe potuto scoprire di essere tra i salvatori dell’industria editoriale – e di esserne felice.

«E tu? Questo è quello che volevi?». Nic me lo domandò un paio di volte più del necessario. Voleva saperlo davvero. Perché c’era tutto, in quelle parole. C’erano i molti anni in cui avevo praticato un mestiere che mi era sempre venuto facile. In certi momenti mi ero pure divertito a farlo, anche se non sempre. Lì c’era la questione vera. Se fai qualcosa che ti diverte, non lo molli mai. Non stai lavorando mai.

D’altra parte, adesso che ero in cima, potevo decidere io. Pasticciando opportunamente con il come, si sarebbe molto chiarito il perché.

Non mi ricordo di aver risposto con parole, ma probabilmente il mio atteggiamento fisico era esplicito. Nic ne sembrò soddisfatto.

Era stato un bel regalo di Natale.

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About the Author

Guido Tedoldi

Nato nel 1965 nel milieu operaio della bassa Bergamasca. Ci sono stato fino ai 30 anni d’età, poi ho scelto di scrivere. Nel 2002 sono diventato giornalista iscritto all’Albo dei professionisti. Nel 2006 ho cominciato con i blog, che erano tra gli avamposti del futuro. Ci sono ancora. Venite.

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