Un’emoticon ante litteram. Un’anticipazione comunicativa da Millennial, un espediente da smanettoni nel cuore della corte ducale di Weimar nei bollori barocchi degli inizi del 1700. E l’autore non è uno qualunque nel variegato consesso umano che ruotava intorno al duca Guglielmo Ernesto. A costellare di cuoricini l’ultima pagina di manoscritto di una cantata, destinata ad accompagnare l’undicesima domenica dopo la ricorrenza liturgica della Trinità, è l’immenso Johann Sebastian Bach.
Se la disputa contemporanea sulla paternità delle emoticon oscilla tra una e-mail del 1979 spedita da un certo Kevin MacKenzie agli aficionados di MsgGroup e un documento del 1982 destinato alla bacheca elettronica dell’università Carnegie Mellon, ora la questione va a ritroso di qualche secolo e tira in ballo niente meno che “il sommo Bach”. Dentro la sua smisurata produzione comprendente millecentoventotto voci, Gemma Bertagnolli (soprano e docente all’Università di Brema e al Conservatorio di Vicenza) si è accorta che il manoscritto originale della cantata BWV 199 “Mein Herze schwimmt im Blut” (Il mio cuore nuota nel sangue) riportava, nell’ultima aria, stilizzazioni della parola “cuore” sulla falsariga delle emoticon depauperanti del linguaggio che oggi ci si scambia a gogò in Facebook o Whatsapp.
“Devo dire – precisa Bertagnolli – che sono rimasta per un attimo incredula nell’osservare un artificio veicolato dai nostri modelli di relazione digitale. Poi, è subentrata l’emozione nel constatare, dentro l’architettura straordinaria del musica bachiana, un guizzo di umanità”. Di fatto l’editoria ha cercato di obliare quel testo tempestato di cuoricini. Infatti, nelle edizioni a stampa Peters o Perreiter l’emoticon sparisce, sostituita dalla parola tedesca “Herz” che significa, per l’appunto, cuore. Ma perché Bach s’è rifugiato nella traslazione figurativa di un concetto esprimibile a parole? “Essenzialmente per motivi di spazio – spiega Bertagnolli – In pratica, se si osserva l’ultima pagina del manoscritto è così densa di note e i testi (desunti da Georg Christian Lehms) sono così fitti che Bach ha pensato bene di escogitare una scorciatoia redazionale. E la parte finale di questa cantata per soprano archi e oboe concertante è proprio un’apoteosi di cuoricini abbozzati velocemente e, alcuni, tracciati con storta disinvoltura. Bach, dobbiamo ricordare, non era interessatissimo a come il cantante si rapportava al testo. Pertanto le parole non sono a suon di nota. Ma per farcele stare tutte su un rigo ha avuto bisogno delle emoticon”.
Nelle convenzioni musicali non mancano simboli che facilitano la scrittura di un’opera. “Per esempio – continua il soprano – quando in uno spartito si deve ripetere lo stesso testo ci si aiuta con un segno che sembra una percentuale. Ma un cuoricino non l’ho mai visto da nessuna parte. Esula dalle convenzioni musicali anche se si inserisce a pieno titolo nelle convenzioni universali. Questo ci mostra anche quanto amore ci fosse nel lavoro di Bach“. Se l’immaginario comune ci rappresenta il compositore come una persona metodica, dai ritmi regolari e imperturbabili e tutta concentrata sulla sua musica, quei cuoricini danno la misura di quanto il maestro di Eisenach (Turingia) avesse una forte personalità, appassionata e creativa. La cantata BWV 199, databile tra il 1711 e il 1714, ha una resa molto drammatica (come spesso succede nelle cantate di Bach) dove viene espresso un rapporto con Dio pieno di reverenza e timore. “E spesso l’aria finale – conclude Bertagnolli – racconta del trionfo della fiducia e dell’abbandono alla trascendenza. Consiglio vivamente di ascoltare questa cantata (si digita in Google: Bach + BWV 199) per comprendere la sua grandezza stilistica”. “Se prendete una delle sue opere a caso, – scrivono, a proposito, Matteo Rampin e Leonora Armellini nel libro “Mozart era un figo, Bach ancora di più” – e la affettate verticalmente ritagliando nello spartito una colonna verticale, ogni singolo ‘carotaggio’ così ottenuto si rivela una combinazione di suoni dotata di un’incredibile coerenza interna, di un senso intrinseco che si regge da sé, ma al tempo stesso acquista ulteriore profondità di significato se inserito nel contesto”.