Da dicembre a febbraio – mese più mese meno, in relazione all’andamento della stagione metereologica – la famiglia contadina si ricomponeva e offriva la possibilità ai vari membri di trascorrere più tempo insieme, rafforzando quindi la dimensione comunitaria. Gli emigranti erano rincasati e le attività agricole procedevano a rilento. Era il tempo del riposo della terra, che nel frattempo si preparava alla prossima resurrezione, delle vacche tranquille nella stalla e non più in continuo movimento al pascolo, delle persone che potevano rafforzare le loro relazioni nella famiglia e nel paese.
L’inverno l’ìa fàcc per requeà ü tantì. Era il tempo della famiglia e della comunità e, proprio in questo periodo, si celebravano le feste più importanti del villaggio. Tempo di bilanci e di programmi futuri. Nella società agricola tradizionale della montagna il tempo non era tutto uguale, nemmeno scorreva allo stesso modo, come accade oggi per gran parte dei lavoratori dell’industria, ma variava e si caratterizzava in relazione all’avanzare dei mesi e al succedersi delle stagioni, nelle quali le singole persone venivano proiettate all’interno di occupazioni variabili e articolate. Non c’era spazio per l’ozio e la monotonia. Ci si preparava ad affrontare una nuova annata agraria e la prossima campagna lavorativa nei boschi o sui cantieri d’Oltralpe.
La regiùra provvedeva alle varie incombenze e al fabbisogno dei diversi componenti. Il denaro era sempre scarso e poche le bütìghe, distanti e fornite esclusivamente con i beni di prima necessità, bisognava raggiungerle… sempre a piedi. A San Simù gh’ìa ol bütighì dol Balèta e il vecchio ostér, ol Batistì faceva anche il campanaro e il mulattiere, per il trasporto soprattutto di farina dalla Felìsa alle contrade dell’Alto Comune, poiché, sino agli anni Cinquanta del secolo scorso, erano le cavalcatorie selciate le nostre “autostrade”. Molti abitanti, però, per risparmiare qualcosa, provvedevano direttamente al trasporto, sulle loro spalle, dei sacchi di farina per la famiglia e gli animali, dal Consorzio Agrario, situato alla Felìsa, sino alle rispettive abitazioni sparse nelle contrade. In compenso c’erano diversi venditori ambulanti, che passavano di casa in casa, alcuni dei quali accettavano anche pagamenti in natura. Per il periodo invernale, ne riporto alla luce tre, che appartengono alla mia infanzia.
Il Somensìna
Cominciamo con il Somensìna ossia il venditore de soménse per l’òrt. Per la verità erano in due, marito e moglie, si dice provenienti dall’alta Valle Brembana (o Seriana), i quali, da gennaio sino ai primi giorni di marzo, facevano visita al domicilio delle varie famiglie. Giungevano sin quassù, una volta all’anno, in automobile, almeno sin dove arrivava la strada, per poi proseguire a piedi, sino a raggiungere anche le contrade più distanti, con la loro grossa valigia di legno appesa a tracolla. L’arrivo del Somensìna era un evento speciale per noi ragazzi, che e m’sé teràa töcc atùren a la tàola per vardà quel misterioso personaggio e la sua mercanzia. Questi, infatti, appoggiava la grossa valigia sul tavolo e la apriva davanti ai nostri occhi grondanti di meraviglia: quella cassetta si presentava suddivisa in tanti scomparti, più di una decina, ciascuno dei quali contenente una particolare soménsa. La mamma acquistava diverse sementi (ensalàda, redécc, còste, fasöi, érs, bròcole,…), che il Somensìna prelevava dai vari scomparti, avvalendosi di un misurì di metallo, della dimensione simile a una cartuccia di fucile calibro 12, o forse leggermente più grande: la misura colma, tirata a raso, veniva ‘ngualeàda fò col dìt e il contenuto versato nell’apposita bustina, sulla quale l’attento venditore scriveva a mano il nome della semente.
Gli uomini, nel frattempo, prima del sopraggiungere della neve, avevano preparato angàt sö òrt e càp: le forti gelate invernali avrebbero poi desfàcc fò anche quelle bàs più dure e compatte. Con lo scioglimento dell’ultima neve, a marzo, il terreno si sarebbe presentato nero e farinoso: bastava una veloce passata de zàpa ed era pronto per la nuova semina. A differenza di quanto avveniva per l’orto, nel càp i contadini avevano già provveduto a mèt en bànda la scorta sufficiente di patate, mergòt e formét, prodotti l’anno precedente, da utilizzare quale soménsa per la nuova stagione.
Il venditore de la roba de bràss
Un altro curioso personaggio, che compariva nelle case rurali soprattutto durante la stagione invernale, era il venditore de la roba de bràss, ossia della stoffa a metri. Nelle grandi famiglie di un tempo c’era sempre una donna della casa che l’ìa endàcia a emparà a taià e a cüs, sulla quale gravava il compito di confezionare il vestiario di tutti i componenti. Öna ölta e s’fàa sö töt: e s’crompàa negót de fàcc! Si acquistava la stoffa necessaria, che veniva poi lavorata in casa per confezionare bràghe, camìse, giübe, begaröi,… Nella famiglia del nonno, ad esempio, fò ai Stàle de Canìt, questo compito era svolto dalla Lina, che l’ìa emparàt a cüs da i Bète, le due anziane mède che abitavano nella medesima contrada. La sarta della casa rattoppava e confezionava gli indumenti che sarebbero serviti per la prossima stagione di lavoro, dando la priorità a quelli destinati agli emigranti, i quali ai primi mesi di marzo i fàa sö damò la alìs.
I venditori di stoffe, col grosso rotolo appeso a tracolla, passavano di casa in casa, offrendo la loro preziosa mercanzia: róba de cutù per i lensöi, róba de flanèla a quadritù per i camìse, róba piö lingìra per fa sö i begaröi, o de föstàgn per i bràghe. Proponevano anche diversi scampoli. Nelle contrade di monte di San Simù si ricorda il passaggio regolare, ogni due o tre settimane, del Löègia, che saliva dalla Felisa, ma anche di una donna proveniente da Berbenno, ormai rimasta senza nome. Una nota fotografia di Pepi Merisio ritrae uno degli ultimi venditori della róba de bràs, che abitava a Brancilione, in quel di San Simù, e operava nei villaggi dell’Alta Valle Imagna. Ol bràs, ossia il braccio, era considerato un’unità di misura, equivalente a un metro: in seguito venne sostituito da una asticella lunga un metro, con tanto di tèche scavate nel legno indicanti i decimetri e i centimetri.
Ol Ragiùna
Infine non si può non considerare ol Ragiùna, l’ometto che, dal Pùt Giürì, con la sua gerla sulle spalle carica di merce, si aggirava di casa in casa, visitando anch’esso le contrade dell’Alta Valle Imagna. Proponeva alle massaie un po’ di tutto, in modo particolare rèf, spölète, butù, anche i primi detersivi di uso domestico e, in cambio, ritirava galìne, cünì, öf, pelli di coniglio e di volpe, perché di sólcc ghe n’ìa mia! Scambi in natura. La regiùra la se scöntàa dét essé. Durante i suoi passaggi regolari, che avvenivano nel corso di tutto l’anno, dunque non solo nel periodo invernale, ogni due o tre settimane, oppure una volta al mese, gh’ìa chi che ghe dàa dét ü galèt, chi ü cünì, chi öna dondéna de öf,… e in cambio ottenevano magari öna o dò matàse de lana. Ogni volta si apriva una contrattazione, che imponeva dei ragionamenti, dai quali forse è derivato il curioso appellativo. Ol Ragiùna ritirava volentieri anche i còregn de parpaiùse, che a quel tempo si utilizzavano per fà sö i pèchegn; bambini e ragazzi le attendevano la sera, sull’imbrunire, en chèla che ì nòcc, colpendole con grossi rami frondosi e facendole cadere a terra, mentre canticchiavano: “Parpaiùsa ì a bass, che te dó pà e làcc. Pà e làcc en de la scödèla, parpaiùsa ì a tèra!”.
Una volta abbattute, si strappavano loro le corna di osso duro e pregiato. Molto richiesta era anche la pelle della volpe: prima di consegnarla al Ragiùna, veniva enversàda, ossia rovesciata come un calzino, col pìl dal dé dét, e riempita con fieno o paglia. Nei primi lustri del secondo dopoguerra, quando si erano aperti ingenti flussi migratori stagionali verso la Svizzera, i giovani di Canito, incontrando ol Ragiùna, sempre molto socievole, umile e disponibile alla battuta, gli chiedevano: “Ragiunòta, Ragiunòta, quand’ìl che m’và en Svisseròta?”. “Lönedè che ì!”, rispondeva sempre il bravo commerciante. Ma non partiva mai. Erano anni difficili per tutti quanti e il Ragiùna, lamentando i pochi guadagni, per un mestiere – il suo – assai difficile, andava affermando che anche per lui era giunto il momento di emigrare in Svizzera. Ma non si decise mai a fare questo passo. Quando ol Ragiùna giungeva alla cà dol Polénte, fò a la Bötèla, il nucleo abitato all’estremità orientale del Comune di San Simù, sua moglie, la Polentìna da fò sö l’èra, guardando verso l’alto, sö en de Fontà, chiamava urlando: “Tarcisia!… Tarcisia!…”, per informare quella donna, la moglie del Ciùmbol, la quale viveva lassù, in quel löch così distante e appartato sul monte, che era giunto il noto venditore. Tarcisia sarebbe presto discesa dal monte, con d’öna o dò dondéne de öf, o con d’ü polastrèl, da scambià dét con vergót d’ótro che ga besognàa.
Tre grandi camminatori
Tre personaggi, come tanti altri, che potremmo definire grandi camminatori, dediti anche al trasporto, con il solo “cavallo di San Francesco”, di merci dal peso non indifferente. Ma… chi non camminava allora? I bergamini al seguito delle rispettive mandrie dal monte al piano e viceversa, i boscaioli su è giù ogni giorno dalla montagna e i muratori per raggiungere all’alba il cantiere, ol Tata e ol Regiùr per recarsi al mercato della Felìsa a crompà ol formài de tara, i bambini per andare a scuola, alla stalla con i nonni, nel bosco,… insomma, tutti quanti. Se n’fàa di pàss, öna ölta!…
by Antonio Carminati, direttore Centro Studi Valle Imagna
Un tuffo al cuore . Mi sembra di aver vissuto questi eventi anche se sono nato nel 65 . Che ci sia memoria nel dna?