Nella pallavolo mondiale c’è stata una squadra che ha dominato la scena dal 1989 al 2000. Era la Nazionale italiana che in quel periodo vinse 3 Campionati Mondiali consecutivi, 4 Europei, 8 World League e un argento e un bronzo olimpici. La sua forza è stata individuata nel gruppo di giocatori che la componevano, denominata «generazione di fenomeni».
Ma l’allenatore che diede il via a tutto, Julio Velasco, ricorda (ne ha parlato Gian Luca Pasini su la Gazzetta dello Sport cartacea del 26 giugno) che all’inizio non fu affatto così. Soltanto uno di quei giocatori, Andrea Giani, aveva cominciato con il volley prima dei 15 anni d’età. A 17 anni altri due pilastri di quella squadra nemmeno conoscevano la pallavolo: Andrea Zorzi giocava a calcio e Andrea Lucchetta si dedicava al tennis. Altri giocatori che approdarono in Nazionale in seguito, Gigi Mastrangelo e Simone Anzani, fino ai 17 anni avevano giocato a calcio.
Ciò sfata un po’ il senso comune secondo cui il talento lo si riconosce prestissimo, quando ancora il futuro campione va alle elementari. Velasco spiega che potrebbe essere così, forse, in una nazione dove tutti gli sport abbiano la stessa popolarità. Ma in Italia domina il calcio e quindi quasi tutti i bambini partono con quello. Poi 1 su 1000 ce la fa e già a 15 anni gli altri 999 smettono di fare sport o continuano sentendosi delle schiappe.
Se in quel momento cruciale arrivasse un insegnante di volley (o di biliardo, o di scacchi, o di sci – il discorso vale praticamente per ogni attività) il futuro campione potrebbe essere ancora scoperto. E potrebbe sbocciare. Magari un po’ più tardi, ma potrebbe sbocciare.
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