Il 15 luglio del 1956 era domenica. A Manchester nasceva Ian Curtis. Il 15 luglio del 2001 era ancora domenica, era la domenica del villaggio global e no-global. Genova si apprestava ad accoglierli entrambi, “Voi G8, noi 6 miliardi”. Ian Curtis nasce nella culla del capitalismo, la Manchester patria del tessile, cotone sudato dai neri e riscosso dai bianchi, la working class pensata subito da Adam Smith da far fruttare al massimo nella pin factory, poi avviata alla catena di montaggio e ottimizzata dal taylorismo al servizio del profitto pro-capitale. Manchester nel colore monotonale dei fumi di scarico e della vita del suo vasto proletariato che negli anni 80-90 si ribella con la musica e genera il Madchester, in pop “baggy”, ok City e United, ma niente sceicchi, no al liberismo della Thatcher, solo proletariato alla ricerca nella musica di un’epifania di resurrezione.
Manchester città dei Joy Division, il gruppo musicale di Ian Curtis, artista post punk portato dall’epilessia prima alla depressione, poi ad un cappio per chiudere in anticipo, a soli 23 anni, per lui nemmeno il Club 27: è il 18 maggio dell’80. Il secondo album dei Joy Division, Closer, esce postumo il 18 luglio dell’80, la copertina, diventata presto iconica, ritrae una tomba al cimitero Staglieno di Genova, quella della famiglia Appiani. Genova non è ancora quella del ponte, ma fa da ponte tra le due domeniche del 15 luglio: 1956 e 2001, il proletariato del vecchio mondo capitalista, e i nuovi sfruttati del nuovo capitalismo globale e digitale.
Il villaggio No-global era nato a Seattle altermondialista e fiorito a Porto Alegre per la rinascita del Sur, giovani che pensano che possa esistere un’altra società ed una globalizzazione diversa, più solidale, una nuova visione della società e di un’economia più sostenibile e rispettosa delle diversità “locali”. Contesta il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, i pochi non eletti da nessuno che decidono per tutti adottando austerità, compiti di bilancio e tagli ai diritti sociali, alle tutele di lavoro, salario, ambiente, che privatizzano tutti i beni comuni, natura compresa.
No-global diventa subito l’ennesima etichetta con cui potere e capitalismo inghiottono qualsiasi cosa, no-global nel 2001 significa contestatore eterodiretto (lo è chiunque la pensi diversamente da noi…), eversivo, ribelle, disadattato, disobbediente, lazzarone, incapace di meritarsi la globalizzazione che porta con sé le “magnifiche sorti e progressive”. Coloro che allora sputavano queste sentenze, sono gli stessi che oggi vivono di rendita lucrando sulla retorica della difesa dei sacri patrii confini dall’offensiva dei poteri forti globali: sempre in ritardo con la comprensione della storia e dell’altro, ma sempre perfettamente in orario con l’opportunismo di carriera i pochi capitani, con il vassallaggio i tanti capitanati.
Vista dal futuro, quella Genova è un’altra città: evaporata sotto i colpi del Pm Enrico Zucca la narrazione dei ragazzi violenti associati ai black bloc fatta dai media di allora. Si è scoperto che Carlo Giuliani, quello che “se l’è cercata”, fa rima con Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi, S. Maria Capua Vetere, e chissà quali altri ancora, visto che, nel regno, verità e giustizia vanno per strade diverse, i provati colpevoli non sono stati condannati. Il 15 luglio del 2001, vent’anni fa, domenica, non c’è più nemmeno il Faber di Genova, che però ci aveva lasciato la domenica delle salme che si ripresenterà puntuale al termine del G8, “il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante” a soffocare “il coro di vibrante protesta”.
“La domenica delle salme si sentiva cantare quant’è bella giovinezza, non vogliamo più invecchiare”, l’Italia vuole tornare giovane e torna a manganellare, senza nemmeno salvare l’apparenza con quelle “manganellate con stile” che chiedevano alcuni gerarchi fascisti, particolarmente affascinati dal gesto estetico. Il villaggio no global le prenderà di brutto, ma non sarà più disposto a biascicare, come il Villaggio genovese, “Com’è umano lei”. Sono venti, e soffiano ancora.