Per più di mezzo secolo abbiamo convissuto (seppur senza particolari strascichi) con una venale fake news relativa all’osso appeso al soffitto del santuario di Sombreno a Paladina.
La costola di 169 centimetri non appartiene a un preistorico mammut come ribadiva don Enrico Caffi, emerito primo direttore del Museo di Scienze Naturali di Bergamo a lui dedicato. Forte della sua scienza, autoritario nel suo indiscusso prestigio di studioso e religioso, in assoluta buona fede, si era convinto che “la reliquia naturalistica” nell’enclave mariana di Sombreno fosse tutto ciò che rimaneva dell’esistenza terrena di un grosso proboscidato estinto, strettamente imparentato con gli odierni elefanti. La smentita al Caffi è giunta da Marco Valle, suo attuale successore al museo di Piazza della Cittadella. “La costola – ha svelato Valle – non è di un mammut, ma di un grosso cetaceo. Si tratta, presumibilmente, di una balena, non antidiluviana bensì inserita nel pieno del Rinascimento”.
Un colpo basso per chi si gongolava nell’ipotesi caffiana, immaginando il mammut incedere imperioso nelle plaghe oggi occupate dalle vestigia industriali del Gres. L’expertise di Valle muove i primi passi il 13 settembre 2018 quando il personale del Museo, approfittando dell’impalcatura montata per il restauro del santuario preleva il resto scheletrico e la catena di fattura settecentesca che lo sospende al soffitto. La datazione “storica” e “non preistorica” dell’osso è stata possibile grazie all’analisi al radiocarbonio in grado di valutare la presenza del radioisotopo del carbonio fornendo indicazioni sulla data nella quale la sostanza organica è stata sintetizzata. Per l’esame è stato necessario prelevare un frammento dall’osso (poi ricollocato) del peso all’incirca di cinque grammi. “I risultati del laboratorio dell’Università del Salento – ha continuato Valle – ci dicono che la costola appartiene ad un animale acquatico vissuto tra il 1432 e il 1591. Un intervallo temporale che vanta una probabilità del 95,4%”.
Grazie, poi, alla collaborazione del fotografo Franco Valoti è stato possibile effettuare delle fotografie con illuminazione ultravioletta che hanno evidenziato scritte storiche sull’osso, già segnalate negli appunti del Caffi. E’ emerso che le lettere “A” e “M” sono intercalate da una croce e non da una “I” come sostenuto dai precedenti interpreti ai quali era sfuggita l’asta orizzontale del simbolo cristiano per eccellenza. Pertanto la sigla “AIM” (intesa come acronimo di “A Imperitura Memoria”) è da ritenersi scorretta. “Lasciando agli storici di professione l’ultima parola – rimarca Valle – potremmo intendere l’iscrizione come le iniziali di un devoto personaggio agiato del tempo, probabilmente Alessandro Mazzoleni, che contribuì a portare l’osso a Sombreno dopo averlo acquistato nel consesso mercantile incoraggiato dall’appartenenza di Bergamo alla Serenissima Repubblica di Venezia. Un’altra ipotesi farebbe intravedere nella scritta una relazione con la famiglia nobile dei Moroni noti per la generosità profusa ai tempi per l’acquisto degli arredi e delle suppellettili del santuario”.
Sulla costola appaiono altri nomi: Giuseppe Bonacina, Giacomo Facheris, Albino Carissoni e Mario Consonni. Ritenendoli velleitari da un punto di vista storiografico, in accordo con la Soprintendenza, sono stati cancellati. Da notare che il riscontro al radiocarbonio della costola ha un’interessante consonanza con la data posta alla base di un ex voto affrescato a destra dell’entrata del santuario dove il nome riportato di “Antonio de Moroni” rimanda alle lettere “A” e “M” della scritta. Ci si chiede se il nobile citato fosse scampato, mentre era in mare, dalla bocca di una gigantesca balena e per questo avesse voluto manifestare la sua fede apponendo un osso al soffitto. “Senza dubbio l’ipotesi è suggestiva – ha concluso Valle – .Ma sull’affresco non compare la ragione dell’ex voto. Potrebbe essere scampato, sì, a un mostro marino come, del resto, aver trovato la morosa dopo lunga attesa”. In futuro l’osso potrebbe essere sottoposto all’analisi del Dna per capire con certezza la natura dell’animale.