Hannah Arendt (1906-1975) teorica politica, si laureò sotto la guida di Jaspers con una tesi su concetto di amore in Agostino. Fu pensatrice libera e scomoda in un mondo diviso da blocchi, degna rappresentante del pensiero critico e oggi icona della filosofia del ‘900.
Pagò il prezzo della sua indipendenza con una certa dimenticanza dopo la morte. Tornarono in auge le sue opere prima in Francia con F. Collin esponente del movimento femminista, poi in Germania – Habermas recensì La vita activa – infine in Italia per merito di diverse filosofe (Cavarero, Forti, Boella).
Arendt non faceva parte dell’accademia, chiacchierata per l’amicizia con Heidegger. Fu giornalista e saggista e sempre pensatrice originale. Come voce critica della contemporaneità ripensò i compiti della filosofia. Nel suo pensiero trovò lentamente posto, seppure in modo non sistematico, la riflessione sul problema degli inizi espresso con la parola natality.
Si tratta dell’idea di generatività della vita che si annuncia già nel lavoro giovanile, la biografia di Rahel Varnhage, scrittrice ebrea vissuta sul finire del ‘700 e protagonista di una fervente stagione culturale.
Dai greci siamo soliti comprendere l’uomo a partire dalla morte. Si parla di nascita all’insegna della morte: “donde viene agli esseri la nascita là anche la loro necessità; si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione” (Anassimandro). La filosofia sembra un insegnamento a ben morire. Molti filosofi hanno fatto della morte la verità ultima dell’esistenza. “L’uomo è essere finito, essere per la morte (Sein zum Tode)” dice Heidegger, “l’anticipazione della morte è l’esperienza decisiva per raggiungere la propria autenticità”.
Arendt prende le distanze da questo tracciato. Tenta una mossa risarcitoria. Ricomprende l’uomo dal suo venire al mondo, “noi siamo nati non per morire ma per incominciare” (La vita della mente). La morte è un fatto, si muore, la morte è iscritta in noi e nelle cose, ma noi siamo per l’inizio.
Il nostro “natalità”, più ricorrente per le statistiche, non rende il termine inglese. Natality va inteso in senso di fecondità, un abitare il mondo che è posizionamento tra gli altri, l’essere cittadini consapevoli e creativi. Arendt sparge quest’idea nei suoi scritti. Parlando di rivoluzione (On revolution) richiama la IV Egloga di Virgilio, il tema del bambino che inaugura l’età dell’oro, un’età di pace e armonia. A S. Agostino attribuisce il merito di una filosofia generatrice: “affinché ci fosse l’inizio è stato creato l’uomo”. Uno spunto per un’antropologia diversa: l’inizio è garantito da ogni nascita, il venire al mondo è un miracolo, una novità per tutti. Hannah si commuove all’ascolto del Messiah di Handel che le ricorda la profezia di Isaia (“un bimbo è nato tra noi, il Principe di pace” 9,5) e al marito Blüker scrive: “… mi risuona continuamente quella musica; ho capito il mio professore Guardini, il messaggio del Cristianesimo”.
Natality è una sorta di antidoto al male, a quei totalitarismi che aveva analizzato (Le origini del totalitarismo 1951). E’ antidoto ad Auschwitz, il male inaudito che neppure Dio aveva previsto. E’ una condanna della criminalità di chi, abdicando alla propria umanità, non pensa ed esegue semplicemente, come Eichmann. Li chiama “sonnambuli” della storia. Ogni inizio è salvezza, promessa di redenzione, ritorno all’uomo capace di distinguere il bene dal male. Noi siamo nati per liberare il mondo dal male e dalle ideologie fuorvianti. La nascita non è questionabile. Il nascere è atto politico: nasciamo ad un mondo di relazioni. Ai giovani il compito di mettere in sesto il mondo, come diceva Amleto, “che è fuori dai cardini”; agli adulti quello di educare per l’autentico vivere politico che sempre vacilla.
Sintesi di Mauro Malighetti della lezione di Alessandra Papa all’auditorium del Liceo Mascheroni di Bergamo (15 febbraio 2022) nell’ambito della programmazione di Noesis
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