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In una lettera al maestro Jaspers, Hannah Arendt diceva che nella catastrofe della guerra la filosofia non poteva ritenersi innocente accennando a quelle idee che avrebbe sviluppato in Le origini del totalitarismo (1951).


I nazisti si sono appropriati di Platone e l’hanno fatto diventare un teorico del regime. Diventava il filosofo del pensiero unico, degli individui replicati. Si cercava l’unità a scapito della molteplicità, non interessava l’essere umano ma l’idea astratta di uomo. Una tale filosofia si rendeva incapace di comprendere ciò che succedeva; si occupava dell’Essere, della metafisica ma non si confrontava con la realtà, si occupava di principi astratti ma non raccontava la vera condizione umana.

Infatti in Vita activa (1958) la Arendt abbandona i problemi teorici e della conoscenza a vantaggio dell’azione, si occupa di come gli uomini agiscono. Agire significa costruire un senso. Noi esseri nella concretezza del mondo non battiamo una via individuale, non ci rifugiamo in una beata solitudine, siamo esseri politici, dobbiamo dare senso all’esistenza nel legame con gli altri uomini. Con la modernità l’universo non si ritrova più sotto lo sguardo rassicurante di Dio. Con l’uomo folle di Nietzsche che al mercato si presenta con la lanterna gridando di non trovare più Dio e implora chi sappia di indicarglielo, l’umanità orfana di Dio si scopre incapace di orientarsi nel bene e nel male. Chi garantirà che i valori scelti siano quelli giusti?

Al processo Eichmann che la Arendt seguì come inviata del settimanale New Yorker (La banalità del male 1962) si trovò davanti un individuo che pur avendo fatto parte ad alti livelli della mostruosa macchina nazista responsabile di milioni di vittime innocenti si difendeva incolpando l’organizzazione. Appariva come uomo ordinario, nulla di satanico come per certi gerarchi nazisti. Suo compito era di far funzionare treni, lui burocrate del regime e rispettoso degli ordini e della legge. Si sentiva in diritto di evocare Kant per giustificare la sua condotta di ligio cittadino.

Perciò è necessario un pensiero vigoroso, una filosofia capace di distinguere e chiarire, che aiuti la comunità a fondarsi di nuovo, che risponda a uomini come Eichmann, agli uomini come lui senza pensiero e che li metta davanti alle loro responsabilità. In La vita della mente (1978) la Arendt porta l’esempio di Socrate, il filosofo critico, che ferma gli ateniesi per strada e li assale con domande. Compito del filosofo è quello di non cristallizzarsi nei pregiudizi, di rompere con gli schemi politici benpensanti, di risvegliare la coscienza del cittadino.

La figura di Socrate è descritta volta per volta come torpedine, tafano, levatrice. Non è uno che definisce o ammaestra. Il suo non è semplice pensiero. “Il pensiero come tale è di scarso profitto per la società. Non ha in sé dei valori semmai dissolve le regole. Non scopre una volta per tutte cosa è il bene e cosa il male”. Tolte le cattive certezze non si sostituiscono d’incanto quelle autentiche. Lo si vede anche nei dialoghi di Platone dove a furia di mettere in discussione si resta infine senza indicazioni di vita (Menone e le domande sulla virtù). D’altronde Socrate stesso non ha forse avuto cattivi allievi come Alcibiade e Crizia che hanno finito per affossare la democrazia ateniese?

Delle indicazioni ciononostante rimangono. Il pensare fa bene, qualcosa resta in noi. Se uno opera male sta male con sé stesso. Pensare non dà risposte definitive ma è fondamentale. Conta quel che si fa: “forse non sarò in grado di spiegare ma so che lasciare un bimbo sotto la neve non è giusto”.

Sintesi di Mauro Malighetti della lezione di Mauro Bonazzi all’auditorium del liceo Mascheroni di Bergamo (12 aprile 2022) nell’ambito della programmazione di Noesis


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