Rimane ancora fondamentale per la mole di documentazione lo Jedin (Storia del Concilio di Trento), ma la sua impostazione è superata. La lingua tedesca – così la francese e l’inglese – usa Reformation per la Riforma di Lutero, Reform invece indica genericamente una riorganizzazione, poniamo di un’istituzione. L’italiano ha un’unica parola per i due significati.
I Papi rinascimentali (Alessandro VI, Giulio II, Leone X, Clemente VI) furono ben poco riformatori, preoccupati più per l’autonomia del Papato e per il denaro che questa comportava. Quello che potremmo definire Stato pontificio non poteva certo competere con la possibilità di cassa di regni come quello di Spagna, Francia, Inghilterra, e ricorreva alla fiscalità religiosa: vendita di benefici, cariche, raccolta di elemosine. Nel momento della Riforma di Lutero la Chiesa si trovò sguarnita di strumenti culturali e spirituali idonei. Ci vollero trent’anni per arrivare al Concilio di Trento (1546). Jedin porta avanti una visione irenica e ottimista di una riforma che viene dal basso, fatta di movimenti (Ignazio di Loyola), di santi tra la gente (Filippo Neri), di opere sociali (Gerolamo emiliani), un’idea già affiorata nel tardo ’800 (Ranke) e fatta propria dal Pastor nella sua monumentale Storia dei papi. Jedin sottolinea la continuità (Ecclesia semper reformanda). Per lui non esistono fratture radicali. La Rivelazione è data dalla Bibbia e dalla Tradizione, e la Tradizione è garantita dalla continuità gerarchica di Papi e Vescovi, successori degli apostoli. Dà peso ai nuovi ordini religiosi, ad esempio quello dei Gesuiti, dimenticando che Sant’Ignazio è stato ripetutamente inquisito. La storia della Chiesa è considerata storia della Salvezza. La Chiesa vive per ripetuti miracoli. I movimenti sono stati rigagnoli che alla fine hanno formato il fiume, cioè il Concilio. Il libro di Jedin ha ottenuto un grande successo, con l’avallo dell’illustre storico comunista Cantimori.
Si è parlato di riforma del clero che nel ‘500 languiva nell’ignoranza, nel concubinato, nella simonia. Si è parlato della nascita dei seminari che sono comparsi solo nel ‘700. Si è detto di Papi riformatori, ma quali? Marcello II? Certo si può definire pio lui che faceva parte della corte del Papa Borgia? Riformatore si può dire Paolo IV oltre la qualifica di inquisitore che mai volle convocare il Concilio? E Giulio III tanto preso dalle sue Stanze vaticane, piene di putti nudi? Se si guarda all’arte, gloria del Rinascimento, cosa dire della totale assenza di dipinti del Concilio di Trento? Non pare che in quel momento il Concilio di Trento ha dato un segnale forte. Anzi, c’è stata ritrosia verso un Concilio che attribuiva un ruolo nuovo ai Vescovi obbligati a risiedere in diocesi. La Curia è rimasta intatta, dominante. Ha seguito lo svolgersi degli eventi in senso repressivo, con l’inquisizione o i libri all’indice.
Un libro di Mancino-Romeo, Clero criminale nell’età della Controriforma, dà una brutta immagine del clero ancora nel ‘600. Il 25% del clero fu processato per reati comuni, di cui quasi la totalità assolti con il privilegio dei tribunali ecclesiastici. Alla Chiesa importava salvaguardare il buon nome dell’istituzione! A Napoli c’erano i chierici selvaggi, per lo più cadetti di famiglie nobili decadute che sfruttavano l’immunità ecclesiastica esercitando il banditismo. L’illuminista Antonio Genovesi commentava: “Basta uscire da Napoli e si incontra il popolo contadino che non sa cos’è la religione”. E dei gesuiti: “Vogliosi di terre di missione; ma perché non qui nelle Indie di casa nostra?”. Semmai erano i vescovi riformatori ad essere guardati con sospetto da Roma. Ancora nella Chiesa pretridentina i frati di ogni ordine religioso non si curavano degli avvertimenti dei vescovi; si sentivano protetti da Roma (immediati subiecti Sanctae Sedi). Quando i francescani di Modena avevano pensato ad un nuovo convento, la Municipalità aveva risposto: “… a patto che sia alla distanza minima di 500 metri da qualsiasi convento femminile”. Gli inquisitori dipendevano da Roma e Roma era interessata all’obbedienza, non ai buoni costumi. Segno dell’ignoranza religiosa in Italia era il divieto di leggere la Bibbia, “neppure in volgare”. Paolo V commentava: “E’ dalla Bibbia che nascono le eresie”. Si è privilegiato la Vulgata, facendo piazza pulita delle ricerche filologiche dell’Umanesimo come quella di Erasmo da Rotterdam. Chi ha vinto è stato il Santo Uffizio – oggi Congregazione per la Dottrina della Fede – garante dell’ortodossia. Il futuro Paolo IV (Carafa) entrò in conclave con un plico di documenti a monito dei cardinali papabili.
La sfida di Lutero ha trovato la Chiesa impreparata. C’erano di mezzo punti dottrinali essenziali. La discussione ha attraversato tutta la chiesa e le posizioni non potevano essere a senso unico. C’era chi era per la spada e chi per il dialogo. Autorevoli personalità e porporati hanno optato all’inizio per scelte che si sono rivelate non ortodosse. Il Cardinale Giovanni Morone fu proclamato dallo stesso Borromeo il salvatore del Concilio. Presiedette la prima e l’ultima sessione. Nel mezzo era stato diverse volte inquisito e rinchiuso in Castel Sant’Angelo. Quando in momenti più favorevoli aveva chiesto di guardare certi documenti riservati che lo riguardavano, si era sentito rispondere che non era possibile. Riforma o Controriforma, si tratta di cogliere conflitti e contraddizioni che hanno attraversato la storia della Chiesa di quei momenti, superando quel trionfalismo di cui la Storia del Concilio di Trento di Jedin è portatrice. La storia è conflitto, compito dello storico è farla parlare.
A cura di Mauro Malighetti (da Massimo Firpo, Il Concilio di Trento. Riforma e controriforma, Normale di Pisa 20/4/2017)