Biondi immobiliare

La Giornata Internazionale della Donna è stata istituita per onorare la condizione femminile, ricordando le conquiste sociali, politiche ed economiche nella storia. Non dimentichiamoci che solo dal 1946 le donne possono a votare, perché prima il diritto di voto era prerogativa esclusiva degli uomini.



Famiglia, lavoro, generosità e dedizione

Nelle famiglie rurali, seppur strutturate sul modello patrilineo – dove ol Tata rappresentava la massima autorità della casa e i beni immobili di norma venivano trasmessi solo ai figli maschi – è sempre stato riservato alla donna un ruolo determinante. Almeno quattro altri vocaboli sono intimamente collegati a quello di donna: famiglia, lavoro, generosità e dedizione. Per gran parte di esse il destino era segnato sin dalla nascita e molte esaurivano addirittura la loro esistenza nell’ambito del paese o della contrada, a servizio della casa. Sin da piccole, nella grande famiglia, le bambine imparavano a felà la lana, a cüs, ad accudire i fratelli più piccoli, a seghà sö l’èrba e a rastelà ol prat, a anghà i rùch, a mungere le vacche,… quindi a svolgere una serie indefinibile di attività. I ragazzi, invece, erano destinati a viaggiare, e ‘ndà entùren per ol mund, esercitando i mestieri di möradùr, carbonèr e boscaröl, segadùr e bacà. Competenze e attribuzioni ben distinte. Nel secolo scorso pareva già una grande conquista per molte donne püdì ‘ndà a fà la sèrva presso le famiglie facoltose delle città lombarde, oppure ‘ndà a laorà en dol felatòi, introducendo così nella famiglia un po’ di denaro ed equiparandosi pertanto agli uomini, da sempre ritenuti i primi procacciatori di reddito. Considerata, in apparenza, una figura subalterna, in realtà la donna ha esercitato una straordinaria funzione di servizio familiare e sociale. Cuore pulsante della famiglia e della società rurale.

Carminati Giacomo con le sorelle (da sinistra a destra : Dosolina, Vittoria, Giacomo, Germana (sposata con un Burla) e seduta la moglie di Giacomo Emma Salvi

Insostituibili fiori di montagna

Le donne quassù hanno sempre svolto un’attività incredibile, costante, giorno dopo giorno, molte volte senza ottenere il dovuto riconoscimento. “Öh, per chèl che te fé!...”, si sentivano dire a volte da chi, anche all’interno della famiglia, riteneva dovuto tutto il loro impegno. Ma si trattava per lo più di un’affermazione ironica, seppure infelice, senza quinti un’intenzione accusatoria. Senza trascurare né i figli, né le faccende domestiche, appena potevano esse andavano nel bosco a portà càrghe de lègna, oppure sàch de gerèle da la batìda dol fil sino in cima alla montagna, dove altri carichi di legna attendevano le carrucole per la discesa veloce a valle, appesi sul filo a sbalzo. Non si contavano i fasì de fé, e gàbbie nde èrba o i dèrei de rüt sö i spàle. Le esigenze della famiglia valevano le fatiche dei singoli individui, soprattutto quelle delle donne della casa, le quali costituivano la prima e insostituibile forza lavoro per l’esecuzione delle varie incombenze stagionali, mentre gli uomini svolgevano altre mansioni o erano lontani. La donna era destinata ai servizi della famiglia e, nell’ambito degli scambi matrimoniali, un giorno sarebbe entrata a far parte di un altro gruppo, chiamata, a seguito del matrimonio, a dare continuità a quella discendenza. Fiori di montagna presto appassiti da una vita non facile, tale da lasciare tracce indelebili sulle mani e sui volti invecchiati anzitempo, nelle cui pieghe si legge il disegno della storia. Donne senza età, né giovani né vecchie, belle e fresche dentro, con sentimenti profondi e silenziosi, ma dalle apparenze severe, per tratti quasi mascoline. Antiche massaie, robuste e determinate, forgiate sul lavoro e lo spirito di dedizione agli altri. Senza di esse, il castello della famiglia si sarebbe sgretolato, crollando su sé stesso.

Prima Comunione, 1949.

Verso un processo di emancipazione della donna

A la fèmna i mistìr de la cà, a l’óm i mistìr dol mund, si sosteneva. Non che l’uomo disprezzasse il lavoro domestico. È noto, infatti, l’attaccamento del Tata alla famiglia e alla proprietà. Si sosteneva, più semplicemente, che l’uomo fosse portato a fare altro, soprattutto ad esercitare tutte quelle funzioni che rappresentavano la famiglia all’esterno. Le elevate responsabilità della donna, tanto sul piano dell’esecuzione dei molteplici lavori, dentro e fuori casa, quanto nella trasmissione a tutta la famiglia degli indirizzi del Tata, nell’organizzazione e coordinamento delle diverse attività, hanno determinato una crescente valorizzazione del suo ruolo, dotato sempre più di autonomia nella gestione dell’economia familiare, nella distribuzione dei vari compiti ai diversi membri, nell’utilizzo delle risorse finanziarie. Con l’emigrazione all’estero degli uomini, poi, la donna l’à düsìt emparà e mitì sö i bràghe. Governare una famiglia numerosa, come erano quelle che popolavano le nostre contrade, non era cosa da poco: ciascuno doveva sapere bene cosa era chiamato a fare e occorreva una rigida distribuzione di compiti. De l’völte besognàa laorà dé e nòcc per vìga sa bèle che negót. Attraverso lo strumento del lavoro, messo in pratica con tanto sacrificio e spirito di responsabilità, ha avuto inizio un processo di emancipazione della donna, conquistato sul campo, dando vita in montagna a forme stabili di matriarcato, che si sono sviluppate, quasi in forma parallela, a quelle più evidenti di patriarcato, pur nella distinzione di ruoli e nel rispetto delle competenze all’interno dello stesso gruppo parentale. In assenza degli uomini, lontani per lavoro soprattutto nella stagione estiva, le famiglie, guidate dalle donne, hanno continuato a vivere nel villaggio, e così è avvenuto dai tempi antichi. Ma quando, soprattutto nel secolo scorso, hanno incominciato ad emigrare anche le donne, le famiglie si sono frantumate, venendo meno il principale elemento cementificatore tra i diversi membri, quello della màre-madòna o della regiùra. Così le case, le contrade, i villaggi sono entrati in una fase di agonia e hanno incominciato a morire, rimasti orfani di mamma. Quante esperienze concrete si potrebbero raccontare.

Onorina Locatelli

La storia di Onorina Locatelli

Nei decenni scorsi il Centro Studi Valle Imagna ha raccolto una serie di testimonianze di anziane donne orobiche, confluite negli Archivi della Memoria e dell’Identità. Riportiamo di seguito la sintesi della vita di Onorina Locatelli, originaria della contrada Canìt de San Simù, che abbiamo potuto raccogliere grazie alla collaborazione della figlia Liliana. Onorina Locatelli, secondogenita di sette figli, è nata a Canito di San Simù il 10 ottobre 1921 da Margherita Cassi, la Ghéta, e Giuseppe Locatelli, ol Carsàna. Era da pochi anni finita la Grande Guerra e nel villaggio c’era ancora tanta miseria. La disoccupazione dilagava e dalla lavorazione della terra le grandi famiglie di allora non riuscivano a trarre i necessari messi di sussistenza per tutti i componenti. L’emigrazione era di casa, una necessità, soprattutto quella stagionale, diretta verso la Francia, dove molti trovavano occupazione nei boschi, sui cantieri e nelle lüsìne. Pure Giuseppe, suo papà, ha fatto numerose campagne in Haute Saône (Francia), lavorando come boscaiolo e facendosi aiutare dalle figlie più grandicelle, tanto nel bosco, a portà lègna, quanto nell’accudimento della baracca: nel 1930 Giuseppe portò con sé Onorina, che aveva solo nove anni, e Caterina, la sorella maggiore di soli due anni più grandicella. Margherita, la mamma, rimase invece nel villaggio con le altre figlie ancora piccole. Nel 1939, scoppiata improvvisamente la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’inaspettata dichiarazione di guerra dell’Italia contro la Francia, Onorina e Caterina, le due sorelle che avevano raggiunto ormai rispettivamente diciotto e vent’anni, hanno dovuto lasciare la Francia per trasferirsi in Austria, allora sotto il dominio della Germania, alleata con l’Italia. Il papà, invece, decise di rientrare in Italia.

Le due sorelle Onorina e Caterina col papà in Francia Haute Saône.

L’incontro con Attilio Pellegrini

Fu in quel periodo che Onorina Locatelli incominciò a parlà ‘nsèma a un compaesano, proveniente dalla sua stessa contrada, Canito, anch’egli emigrato per lavoro in Francia, Attilio Pellegrini, il quale accettò i accompagnare le due sorelle Locatelli in Austria, dove pure lui si stabilì per lavoro. Fecero ritorno in Italia solo il mese di febbraio 1943, quando si sposarono a San Simù, per poi ripartire subito, diretti sempre in Austria. Attilio lavorava come camionista a Kapfenberg, una cittadina vicino ad Aflenz, dove si era stabilito con la sua famiglia e proprio lì nacquero i primi due figli: Alberto nel 1943 e Lilliana nel 1944. Rientrarono in Italia solo alla fine della guerra, il mese di maggio 1945: fu un viaggio arduo, con due bambini ancora piccoli, che durò circa un mese, utilizzando diversi mezzi di fortuna, dal camion alla corriera, dal trattore… al cavallo di San Francesco. La famiglia, dopo tante tribolazioni, si stabilì a Canito, nella casa paterna dei Pellegrini, dove nel 1946 nacque Ferdinanda (chiamata più semplicemente Fernanda), mentre nel 1947 Cornelia. L’immediato secondo dopoguerra è stato un periodo molto difficile, in paese non c’era lavoro e Attilio dovette per forza fà sö amò la alìs ed emigrare in Svizzera con un contratto di lavoro stagionale, prima a St-Ursanne nel Jura, poi a Ponts-de-Martel nel cantone di Neuchâtel. In quel periodo era esplosa l’emigrazione in Svizzera, ma la Confederazione d’oltralpe cercava solo di braccia da lavoro e non consentiva ancora il ricongiungimento dei nuclei familiari dei lavoratori, che fu una conquista sociale successiva.

Passaporto di Onorina Locatelli

Operaia, moglie e madre

Onorina Locatelli e i figli rimasero dunque a Canito e così avvenne per moltissime famiglie del villaggio: i loro uomini sarebbero rimpatriati solo a novembre, al termine della stagione lavorativa. Pochi anni appresso, per la precisione nel 1957, Onorina potè raggiungere Attilio a Pont- de-Martel, portando con sé due figli, Fernanda e Cornelia. Per gli altri due, trovò una soluzione alternativa: Alberto venne mandato in collegio a Brescia, presso l’Istituto Artigianelli, dove conseguì il diploma di tornitore meccanico, mentre e Liliana trovò ospitalità nel collegio delle Suore Orsoline di Bergamo, frequentando la scuola di computista commerciale. Onorina lavorava, come operaia, in una fabbrica di orologi a Ponts-de-Martel, mentre Fernanda e Cornelia frequentavano gli ultimi anni scolastici obbligatori. Sono stati anni difficili perché, oltre a dover imparare la nuova lingua francese, Onorina Locatelli e i suoi figli si dovettero adattare alla vita in un paese straniero, che allora era abbastanza ostile nei confronti degli Italiani. Quattro anni dopo Alberto e Liliana, conseguiti i rispettivi diplomi, raggiungono la famiglia in Svizzera, che così si ricompone. Poco dopo, dal 1964 al 1967, le tre figlie di Onorina si sposano con altrettanti Valdimagnini: Liliana con Giambattista di Berbenno, Fernanda con Alessandro di Selino Alto e Cornelia con Giuseppe di Valsecca. Vivono tutti in Svizzera. Onorina e Attilio decidono di rientrare in Italia, raggiunta l’età della retraite, e nel 1971 compiono l’atteso e definivo passaggio: rimpatriano e si trasferiscono nella loro casa di Canito. Fu la loro seconda emigrazione e dovettero riabituarsi alla nuova vita di contrada. Alberto, il figlio, rientra con loro, mentre le tre figlie, ormai sposate, rimangono in Svizzera con le rispettive famiglie. Onorina e Attilio si possono finalmente dedicare alle passioni di sempre: lui è impegnato in tanti lavoretti tra prato e stalla, mentre lei si prende cura dei fiori nel suo giardino. Ce ne sono tanti e di tutti i colori, che richiamano un po’ le stagioni della sua vita.

Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna


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Autore

Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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