Apocalisse letteralmente significa rivelazione. Ci sono momenti nei quali la Storia bussa alla porta della coscienza e impone domande decisive, rispondendo alle quali si ha una rivelazione. Sono i momenti apocalittici. Io penso che noi ne stiamo vivendo uno e la domanda apocalittica o rivelativa che sento premere dentro di me è la seguente: vale di più la vita o la libertà? Vita e libertà sono i due valori decisivi per l’esistenza di ognuno di noi: la vita è la nostra dimensione fisica, la libertà è la nostra dimensione morale. Tra di esse dovrebbe sempre esserci armonia perché è chiaro che senza vita non c’è libertà e che senza libertà non c’è vita umana, per questo ognuno di noi aspira a una vita libera.
A volte però la Storia non permette questa naturale armonizzazione e impone di scegliere, e in questo caso ognuno deve chiarire a se stesso qual è il valore-guida per lui: se la vita o la libertà. Penso che sia esattamente la medesima alternativa che si pone alla coscienza di fronte alla sofferenza estrema quando il territorio invaso non è l’Ucraina ma il nostro corpo, e l’invasore non è Putin ma una malattia irreversibile e invalidante che trasforma progressivamente la vita reale in una specie di tortura. Che cosa vale di più in quel momento apocalittico sul piano esistenziale: la vita o la libertà? La sacralità della vita fisica o la sacralità della vita libera? Ieri la Camera, approvando la proposta di legge sulla morte volontaria medicalmente assistita, ha implicitamente risposto che è più importante la libertà, proseguendo nell’affermazione dei diritti del singolo sopra la propria esistenza iniziata nel 1974 con la legge sul divorzio.
Ma, dal 24 febbraio scorso, l’invasione dell’Ucraina e la sua progressiva distruzione hanno trasferito anche nel campo dell’etica sociale l’alternativa che di solito consideriamo nel campo della bioetica, chiedendo anche qui: vita o libertà, quale delle due ha la precedenza? È chiaro che vi sono delle differenze, perché nel caso dell’eutanasia si decide solo sulla propria vita e non su quella di altri, mentre nel caso della guerra si mettono in gioco anche le vite altrui e accettando di partecipare al conflitto (anche solo indirettamente inviando armi) non ci si sottrae al togliere la vita a degli esseri umani. La somiglianza però è maggiore della differenza, perché il cuore del problema è il medesimo e consiste nel chiarire quale debba essere il principio-guida dell’esistenza, se la vita o la libertà.
Vi è chi risponde la vita ed è disposto per questo a sottomettere la sua libertà, piegandosi all’invasore e accettando la sottomissione, pensando magari poi di resistere in modo non violento mediante forme di disobbedienza civile. Chi agisce così lo fa o perché non potrebbe mai abbracciare un’arma per sopprimere anche solo una singola vita, fosse pure quella di uno spietato mercenario ceceno; o perché, calcolando l’entità delle forze in gioco, pensa che resistere è inutile, anzi aumenta di molto il numero delle vittime. Vi è invece chi risponde la libertà, ed è disposto per questo a mettere in gioco la vita propria e altrui, contrastando con le armi l’invasore perché avverte il dovere morale di difendere il proprio Paese e i propri cari, e mai accetterebbe di perdere la libertà. Meglio morire, dice, che vivere come schiavo. Fa lo stesso ragionamento di chi su un letto di ospedale dice prima a se stesso e poi al mondo: staccate la spina di questa macchina, questa non è vita per me, lasciatemi affrontare la morte come decido io e aiutatemi a morire.
Si tratta di due opzioni entrambe legittime e rispettabili, dietro le quali vi sono filosofie e spiritualità degne della più alta considerazione. La domanda giusta quindi a questo punto non è «chi ha ragione?», perché non lo sapremo mai: non c’è un tribunale assoluto della storia (per i credenti c’è il Giudizio universale, che però è alla fine, al di fuori della storia). Qui e ora c’è solo il tribunale relativo della coscienza di ognuno di noi e quindi la domanda giusta è: «tu, da che parte stai? che cosa è più importante per te, la vita o la libertà? La dimensione fisica o la dimensione morale dell’esistenza?» Se per te è più importante la vita, aiuterai chi è alle prese con una condizione terminale mediante le cure palliative, ma mai accetterai la sua richiesta di suicidio medicalmente assistito; allo stesso modo aiuterai gli ucraini dal punto di vista umanitario e diplomatico, mai però dal punto di vista militare, perché questo per te equivale a gettare benzina sul fuoco, aumentando la perdita di vite umane. Se invece per te è più importante la libertà, accoglierai la richiesta di chi vuole andarsene dal suo corpo perché non ce la fa più, e allo stesso modo vorrai che gli ucraini, oltre che umanitariamente e diplomaticamente, siano aiutati anche militarmente.
Chi, come me, segue questa seconda via, lo fa perché ritiene che la via diplomatica e la via militare si rafforzino reciprocamente, e soprattutto perché ritiene che per un essere umano non vi sia nulla di più importante del senso di giustizia, di dignità e del desiderio di libertà. È la lezione di Bella ciao: il fatto cioè che qualcuno, trovando l’invasore, dica a se stesso «mi sento di morir» e divenga partigiano. Laddove è chiaro che quel «mi sento di morir» non esprime un desiderio di morte ma un desiderio di vita, di vita libera però, perché chi canta così sente che, se non è libera, la vita non è umana. Mi vengono in mente le parole che Dante fa pronunciare a Virgilio in risposta a Catone. Era successo infatti che costui in quanto custode dell’accesso al Purgatorio si era opposto all’ingresso di Dante, vivo, in quel regno di morti, al che Virgilio in difesa di Dante gli disse: «Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio, I, 70-72). A volte, per la libertà, si può anche rifiutare la vita, come peraltro aveva fatto lo stesso Catone, suicida per non cadere nelle mani di Cesare, e che Dante, la cui fede cristiana era intensissima, non pone, a differenza di Pier della Vigna e degli altri suicidi, all’Inferno, ma in Purgatorio, attestando così che a volte, per la dignità della propria esistenza, è lecito scegliere di andarsene prima. Sia in un letto di ospedale, sia in un campo di battaglia.
Operare questo discernimento nel teatro della propria coscienza morale significa affrontare il più alto lavoro filosofico e spirituale a cui oggi siamo chiamati dalla danza macabra che la Storia sta conducendo sulle città e le campagne ucraine e sugli esseri viventi (umani, animali, vegetali) che le abitano, o le abitavano. Oggi più che mai il compito del pensiero consiste nel sollevare questioni di principio, radicali, esistenziali, e non importa che magari non si dorma o ci si svegli nel cuore della notte: non siamo nati per dormire. È vero altresì che il lavoro serio su di sé alla fine ripaga, conduce a liberarsi dalla rabbia e dall’angoscia, dona la luce buona che proviene dall’onesta conoscenza di sé. «Conosci te stesso» era la massima incisa sul tempio di Apollo a Delfi, base della filosofia di Socrate, e oggi si può giungere a conoscere se stessi affrontando la domanda imposta dalla guerra in Ucraina, identica a quella della materia bioetica, su quale sia il valore più alto tra la vita e la libertà.
di Vito Mancuso da LA STAMPA.IT
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