Alla domanda su quale sia il manufatto più rappresentativo dell’architettura rurale tradizionale della Valle Imagna, in relazione alla vita e al lavoro delle popolazioni nei secoli scorsi e al loro radicamento nelle contrade, la risposta viene da sé: la stalla.
Non più di sei metri per quattro
È l’edificio rurale ad uso zootecnico e agricolo presente nei centri abitati e nei löch più distanti. Il modulo edilizio, a pianta ridotta (non più di sei metri per quattro), si ripete con un locale al piano terra, per il piccolo allevamento zootecnico (la stala di àche), e il fienile a quello superiore (la stala dol fé, con accesso separato dall’esterno). La comunicazione interna è garantita dal büs dol fé, il buco (di dimensioni ridotte anche solo di sessanta centimetri per quaranta, realizzato in corrispondenza della traìs sottostante, oppure del fenèr), dal quale scaricare nella stalla il foraggio per l’alimentazione quotidiana del bestiame. La stalla si presenta quale edificio compatto di pietra, dai muri perimetrali (pride) sino al tetto (di piöde) a due falde senza gronda e sprovviste di canài. Il pavimento della stala di àche è in acciottolato (ressöl), per evitare lo scivolamento dei quadrupedi. L’utilizzo del legno è limitato alla soletta, che separa la stalla dal fienile, e all’impalcatura del tetto, sostenuto da robuste capriate. L’öss de la stala e ol purtù de la stàla dol fé sono generalmente realizzate, un tempo dallo stesso contadino, in assito di castagno. Lo stile sobrio ed essenziale del manufatto richiama subito un’economia di sussistenza, con pochi capi di bestiame per il sostentamento familiare. Al fienile si accede mediante una caratteristica porta a “T”: l’apertura nella parte superiore è a misura del fascio di fieno, raggiungibile attraverso alcuni gradini di pietra o una scala a pioli. Il vano è aerato da piccole feritoie, utili per la conservazione del foraggio. Nella stalla, oltre alla bösaröla nella porta d’ingresso, c’è una finestrella con inferriata. Le stalle più grandi e attrezzate sono di solito annesse alla cà o situate nell’ambito della contrada; alcune di esse fungevano da luogo di incontro e quale laboratorio per i lavori invernali.
Cuore della famiglia contadina
Pure i löch più distanti sono dotati della stalla, per la difficoltà nel trasportare il foraggio. I gruppi meglio organizzati possedevano anche ol stalì dol porsèl e ol stalòt de la fòia. La stala, sempre ai margini del prato, costruita con i materiali del luogo (la pietra estratta dal sottosuolo e il legname tagliato nel bosco), si inseriva perfettamente nel contesto, sino a costituire un’unità ambientale con esso. Non un corpo estraneo, ma uno dei tanti elementi compositivi di un paesaggio coerente e dalle architetture edilizie e vegetali sobrie. Avrebbero molto da imparare anche i professionisti del costruire dei tempi moderni. La stalla costituiva il perno di un’economia agricola e pastorale che si autorigenerava tutti gli anni. Ciascun edificio aveva al suo intorno il prato, il pascolo, il bosco, possibilmente anche una piccola selva castanile. Mentre le stalle situate nelle contrade costituiscono spesso un tutt’uno inscindibile con le abitazioni ed erano utilizzate costantemente durante l’anno, svolgendo pure una funzione sociale rilevante, quelle più distanti, sparse nei löch, venivano utilizzate in periodi saltuari: per il pascolo primaverile e autunnale, durante la fienagione, infine per il tempo occorrente – tra il tardo autunno e la primavera – a maià dó ol fé, così da produrre il letame per la concimazione del prato. Tra un periodo e l’altro, il piccolo allevatore compiva una transumanza interna, per lo spostamento degli armenti da una stalla all’altra e di tutto l’occorrente per gestire la bergamina: catene, secchi di mungitura, fassaröl e spressùr, ràscc e rastèi,… Riti di passaggio, che anche le vacche percepivano. La stalla ha rappresentato il vero cuore della famiglia contadina, forse anche più della casa, dove l’uomo ha sperimentato una particolare relazione umana e produttiva con il contesto.
Tempo d’alpeggio
Mancano solo poco più di tre settimane all’arrivo ufficiale della primavera, ma le attuali giornate calde e soleggiate hanno già messo in fermento contadini e allevatori, impegnati a concludere le ultime attività invernali, prima che la natura compia la sua resurrezione. Sö la stala dol fé si contano ormai i pochi balù rimasti. Gli anziani consigliano di conservare sul fienile il fabbisogno di foraggio sufficiente almeno sino alla metà del mese di aprile e, se le scorte stanno per finire, bisogna provvedere senza indugio. Giungono così improvvise le comànde ai Brüghì, mercàncc de fé de Put Giürì, e… con i prezzi che circolano, besógna mèt mà al bursì! Con i piccoli trattori da montagna, si trasportano qua e là grosse rotoballe, da una stalla all’altra, in relazione ai bisogni alimentari delle vacche. Alcune di esse, dopo molti mesi alla catena, oppure semplicemente rinchiuse in ambiti coperti, iè ‘mpó scassìde. I capi adulti, ma anche i vitelli, incominciano a muggire nella stalla, più di prima, come a “sentire” il tempo ormai prossimo dell’alpeggio, in libertà, tra prati e pascoli di monte. Le sént en dol sàng che l’è sà ura de ‘ndà e che, tra poco più di un mese, tempo permettendo, festeggeranno con salti improvvisi e galoppate nel prato la nuova e fresca aria che soffia dal Resegone. Francesco trasporta le sue ultime rotoballe dalla stalla di Recüdì a quella di Calsinù, dove ha le mucche in stalla, ma anche quella scorta di fieno, fatto essiccare sulle pendici del monte Poren, non basta e dovrà provvedere all’acquisto di cinque o sei balloni. C’è anche il letame da stendere nei prati ed è in attesa gli consegnino la nuova pinza dentata, azionata da un sistema idraulico collegato al trattore, per il carico del prezioso concime. Ormai l’è ura. La vita rurale è disseminata di situazioni impreviste. Inimmaginabili per gli abitanti della città. Quassù ogni giorno è un’avventura, non c’è un’alba o un tramonto uguali agli altri e l’unica certezza per i montanari, presente sin dal primo risveglio, sono le cose da fare e che non possono non essere fatte.
Sottrarre al bosco aree coltivabili
Mentre Francesco è intento nel trasporto del foraggio, Ugo, attende che Graziano salga ai Calf con la sua ruspa, per livellare un’area sottratta al bosco e da sistemare a prato stabile: ha già provveduto a tagliare tutte le piante e, nella sua visione delle cose, intravvede già che, dal nuovo prato, nei prossimi anni potrà ricavare due rotoballe in più di fieno. Ugo è un visionario, ma non si può non esserlo in montagna, per poter guardare oltre le molte fatiche contingenti. Antica e preziosa attività è quella di sottrarre al bosco nuove aree coltivabili, che ha caratterizzato la vita e il lavoro dei valligiani nei secoli scorsi, anzi addirittura negli ultimi millenni. Un’azione oggi in controtendenza, rispetto all’avanzare continuo, incontrollato e selvaggio delle aree boscate. Ugo si è fatto portatore di un piccolo ma significativo gesto. Lo vogliamo considerare un esempio generativo, un seme. Al giorno d’oggi, poi, i potenti mezzi meccanici sono in grado di compiere in poche ore ciò che un tempo avrebbe occupato più contadini per diversi mesi. Nel frattempo, il nostro protagonista ha già accantonato, dalla méssa dol rüt, la parte di letame occorrente per dare subito la sostanza al prato in formazione. Inoltre ha messo da parte, sö la stala dol fé, tutto ol blès risultante dalla movimentazione del foraggio, raccolto in sacchi, pronto per essere poi disteso e seminato sulla nuova cotica. Possedere una visione significa riuscire a vedere oltre le apparenze e le situazioni contingenti, traguardando un progetto realizzabile in un contesto ben definito. Visione come atto di amore nei confronti di un territorio: dunque nessuna fantasticheria o utopia priva di fondamento. Tutt’altro. Ugo è capace di vedere al di là della situazione attuale e il suo pensiero insegue un’idea, dà forma a un disegno di riordino di un pezzo di terra, attribuendogli una funzione specifica. È la stessa visione di quasi tremila anni fa, quando i primi gruppi di Orobi si stanziarono nella regione. In questo momento, il nostro protagonista sta persino preparando i pài de castègna che serviranno per la successiva recinzione: scortecciati, uno alla volta, col scursì – un attrezzo caro al lavoro dei boscaioli impegnati nelle grandi foreste di abeti di Svizzera e Francia -, appuntiti con la sighür come fossero delle enormi matite, quindi incatramati, o bruciacchiati, nella parte da interrare, infine allineati in bella mostra sö la stala dol fé, in attesa di essere conficcati nel terreno e collegati tra loro da pèrteghe orizzontali. Tante piccole azioni a misura d’uomo. Questi tronchetti appuntiti, cosi bene allineati e in bella mostra, si presentano come tante lance di una falange sul campo di battaglia, pronta per conquistare un altro territorio.
Sottrarre al bosco aree oltivabili
Non è un ritorno al passato, perché Francesco, Ugo (cito espressamente i due, di cui sono testimone diretto del loro lavoro) e tanti altri contadini e valligiani sono oggi impegnati non solo a produrre beni alimentari, valorizzando risorse di origine vegetale e animale, ma anche ad assicurare servizi vitali per tutti noi, connessi alla tutela della natura e dell’ambiente, nonché alla concretizzazione dei principi universalmente condivisi di umanità e di comunità. Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie, presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue caratteristiche naturali e antropiche. O, se vogliamo, combattono, come altrettanti guerrieri, la battaglia quotidiana di umanizzazione del creato, o dell’evoluto. Con quali strumenti? Primo, tra tutti, quello del lavoro. È proprio grazie al lavoro che l’utopia diventa realtà, la visione continua ad assumere, oggi come tre millenni fa, connotati concreti.
Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna